
Adone ed Afrodite: mito e misteri – Luigi Angelino
La figura di Adone è una delle più misteriose della mitologia greca, potendo vantare un’origine estranea al mondo ellenico, ma legata all’ambiente semitico, dove rappresentava un importante punto di riferimento nel culto di diverse religioni misteriche che si ispiravano al ciclo naturale, nel suo cammino di morte e di rinascita. Come risulta evidente, il nome della divinità si ricollega al termine ebraico “Adonai” (signore) che costituiva un modo per riferirsi alla divinità principale, divenuta “unica” solo dopo la declinazione religiosa ed abramitica del Divino. Di questo complesso archetipo, identificato con Tammuz e da alcuni con il terribile Baal venerato a Babilonia, sono state evidenziate notevoli similitudini anche con la divinità egizia Osiride, con l’anatolico Sandan e con suo figlio Attis, nonché con l’etrusco Atunnis. In alcuni scritti babilonesi, Tammuz è descritto come il giovanissimo marito o amante di Isthar, la grande dea assimilabile ad Afrodite nella letteratura mitologica ellenica, simbolo della forza rigenerante della natura. Questi elementi costituiscono, con ogni ragionevole probabilità, i presupposti per la successiva contestualizzazione della figura in ambiente greco verso l’inizio del settimo secolo a.C.(1).
Le antiche fonti parlano di Adone come di un fanciullo di straordinaria bellezza, nato dal rapporto incestuoso e turbolento tra Cinira, re di Cipro, e sua figlia Mirra. L’unione incestuosa sarebbe avvenuta all’insaputa del genitore, fatto ubriacare per la torbida occasione. L’amore impossibile era nato a seguito di una maledizione scagliata dalla dea Afrodite, in quanto, secondo la versione principale della storia, la moglie del re arrivò ad affermare che sua figlia Mirra era più bella della dea, mentre secondo un altro filone narrativo Afrodite si sarebbe vendicata per la scarsa devozione dimostrata dalla ragazza nei suoi confronti. Sta di fatto che la dea della bellezza provocò nella fanciulla una bruciante passione per il padre. Mirra, consapevole di non poter soddisfare lecitamente il proprio desiderio, si abbandonò al pianto ed alla cupa disperazione, arrivando perfino al tentativo di suicidio. La nutrice Ippolita, mossa a pietà dai suoi lamenti, contribuì a non vanificare il progetto di vendetta di Afrodite, persuadendo la ragazza a desistere dall’insano gesto (2). L’anziana e perspicace donna, udendo la frase pronunciata con rassegnato sgomento da Mirra: “o mamma, felice per te che sei sua moglie”, comprese la passione incestuosa della fanciulla per suo padre e, raccogliendo poi le confidenze di Mirra, si rese disponibile ad aiutarla. La furba nutrice aspettò che si arrivasse al giorno della festa di Demetra (3), quando le donne non potevano unirsi ai loro mariti, per proporre al re Cinira, ebbro di vino, un amplesso con una bellissima ragazza coetanea di sua figlia. Quando scese il buio della notte, la nutrice condusse Mirra nella stanza del padre, avvicinandola all’uomo nella totale oscurità. Mirra si unì con suo padre per ben nove notti, senza che Cinira si rendesse conto della sua reale identità. La decima notte, il re non seppe resistere alla curiosità e, dopo aver accostato la lampada al volto della ragazza, scoprì con ribrezzo che si trattava di sua figlia. Allora sguainò la spada per ucciderla, volendo punirla per un gesto così sacrilego e sconsiderato davanti agli uomini e davanti agli dèi. La fanciulla scappò via colpevole e terrorizzata verso la campagna, pregando gli dèi di aiutarla a salvarsi, rendendola invisibile. Secondo, invece, una versione più aulica, Afrodite, impietositasi per la sorte della fanciulla, peraltro da lei stessa provocata, la trasformò in un albero di mirra, che successivamente il re furibondo avrebbe tagliato in due con la sua spada. La storia non finisce qui: perché esattamente dopo nove mesi, Mirra, o meglio l’albero di Mirra, manifestò le doglie del parto, non con i gemiti comuni a tutte le donne, ma incurvandosi per consentire l’espulsione del nascituro. Lucina, la divinità del parto, posando le mani sulla corteccia dell’albero, pronunciò le parole che costituivano una sorta di mantra per dare il benvenuto al nuovo arrivato. Dalla corteccia si aprì una fenditura, dalla quale si fece strada nel nostro mondo il piccolo Adone, frutto dell’incestuosa unione tra Mirra e suo padre (4). Adone fu immediatamente raccolto e poi allevato dalle Naiadi che, come in una sorta di rituale battesimale, lo bagnarono con le lacrime di sua madre.
Della straordinaria bellezza del bambino si invaghì subito la stessa Afrodite che ideò uno stratagemma che in seguito le avrebbe causato non pochi problemi. La dea, secondo il racconto dello Pseudo-Apollodoro (5), fece rinchiudere il bambino in una cassa di legno e lo mandò a Persefone, affinchè quest’ultima lo relegasse in un luogo totalmente oscuro, al riparo di altri soggetti che se ne potessero infatuare. Come si può facilmente prevedere, anche Persefone non seppe resistere alla tentazione di osservare l’oggetto di così tanta premura da parte di Afrodite. E così aprì la cassa di legno e rimase folgorata dall’avvenenza di quel magnifico bambino. A quel punto se ne innamorò follemente e decise di custodirlo, come un cimelio prezioso, nella propria reggia. Ovviamente Afrodite venne a sapere cosa era successo e quali fossero i propositi di Persefone e, quindi, adiratasi ancora una volta, si precipitò verso il Tartaro per pretendere la restituzione del bambino. Persefone non volle cedere all’insistenza della dea della bellezza e quest’ultima si affidò alla decisione finale di Zeus. Il padre degli dèi preferì “non decidere”: non si sa bene se il vero motivo fosse perché non voleva scontentare nessuna delle due potenti dee, oppure perché ritenesse la questione non degna della sua attenzione. Allora affidò il verdetto ad un consesso guidato dalla Musa Calliope. All’esito dell’inedito giudizio si stabilì che su Adone, sia Afrodite che Persefone potevano vantare pari autorità, in quanto la prima aveva il merito di averlo salvato al momento della nascita, mentre la seconda quando aveva aperto la cassa di legno (i sigilli della cassa, infatti, avrebbero potuto risultare fatali per la sopravvivenza del piccolo prodigio). Calliope, alla fine sentenziò che Adone, nel frattempo diventato adolescente, avrebbe dovuto passare un terzo dell’anno con Afrodite, un terzo con Persefone ed un altro terzo con un soggetto di sua scelta (6). Vi è anche un’altra versione, secondo la quale la decisione, sulle sorti di Adone, sarebbe stata presa da Zeus. La sentenza, comunque, non piacque ad Afrodite che avrebbe voluto Adone tutto per sé. In tale contesto si innesta un altro importante mito: Afrodite provocò nelle Menadi una torbida passione per Orfeo, figlio di Calliope, colpevole di aver emesso la sgradita sentenza. Orfeo, però, non ricambiò la passione e respinse le folli ed invasate fanciulle che, per punirlo dell’affronto subito, non esitarono a sbranarlo. Nel frattempo Afrodite non seppe darsi pace ed indossò una cintura magica, in grado di aumentare l’appetito sessuale verso chi la portasse, inducendo il giovane Adone a cadere fra le sue braccia. La dea, intanto, riuscì a tenere legato a sé il ragazzo anche per la parte di anno in cui lui sarebbe stato libero di scegliere la persona amata e perfino durante alcuni periodi riservati a Persefone. Tra i numerosi figli della coppia Afrodite/Adone si ricorda Priapo, il satiro della fertilità, di cui però la paternità non è certa, in quanto sarebbe stato concepito anche dopo l’unione di Afrodite con Dioniso (7).
Seguendo il principale filone narrativo, Adone sarebbe stato ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia. L’animale, secondo diverse versioni, sarebbe stato mandato o dal geloso Apollo, aiutato da Artemide, oppure da Ares altro focoso amante di Afrodite. La morte del giovane si intreccia con la tradizione iconografica di due tipologie molto note di fiori. Si narra, infatti, che dal sangue di Adone morente fiorirono gli anemoni (8), mentre dal sangue di Afrodite, ferita nel vano tentativo di prestargli soccorso, si svilupparono magnifiche rose rosse. Zeus non rimase insensibile davanti allo struggente dolore della dea ed, in qualche modo, diede la possibilità ad Adone di continuare a “vivere” anche dopo la morte, restando quattro mesi nell’Ade, quattro mesi con Afrodite sulla terra ed altri quattro con chi avesse preferito. Al bellissimo e conteso quanto sfortunato fanciullo, come figura simbolica della rinascita primaverile, in epoca classica, tra aprile e maggio, furono dedicate particolari ricorrenze, le Adonie. Durante questo periodo, le giovani donne, come devozione nei confronti di Adone, portavano al tempio grandi vasi pieni di fiori. Questi vasi costituivano dei vari e propri giardini in miniatura e venivano coltivati con scrupolosità durante l’intera stagione invernale, per essere poi dedicati al dio che rinasceva in primavera.
Il culto delle Adonie era diffuso soprattutto ad Atene, dove i “piccoli giardini”, collocati in vasi o, comunque, in piccoli recipienti, erano riempiti con semi di piante come grano ed orzo, per la capacità di questi vegetali di poter germogliare in tempi rapidi. I vasi erano poi esposti al caldo sole estivo e appassivano ugualmente molto velocemente. La devozione in onore di Adone, perciò, serviva ad indicare la caducità dell’esistenza umana che, come la stessa vita del bellissimo fanciullo, nasce, si sviluppa, ma è destinata a svanire in fretta. Ma il culto simbolico della forza giovanile di Adone, spentasi così presto ed in maniera cruenta, non era di certo privo di speranza. Le donne ateniesi che si dedicavano a tale devozione si abbandonavano a canti funebri, per piangere ritualmente la morte di Adone (9). Nello stesso tempo, il monito sulla fugacità delle cose costituiva un invito a godere dei piaceri della vita presente ed indicava la capacità della natura di rinnovarsi in un ciclo continuo, proprio come il mito di Adone raccontava del suo ritorno dall’Ade per poter passare parte dell’anno con la sua amata sulla terra. Con un linguaggio moderno, potremmo dire che le Adonie potevano servire anche a razionalizzare un terribile lutto, ponendo accanto al dolore della scomparsa di una persona cara, la consapevole determinazione che la vita deve andare avanti.
Nel tentativo di analizzare un mito così complesso, si può partire con la definizione di Ovidio, contenuta nelle “Metamorfosi” a proposito di Adone, “creatura concepita nel peccato” (10). E’ superfluo ricordare che non si tratta di un “tipo” di “peccato” da considerare secondo la dottrina cristiana, ma che introduce il destino infausto del giovane, come la stessa etimologia del termine suggerisce (11). L’amore proibito tra i genitori di Adone, peraltro, era stato voluto proprio dalla vendetta di Afrodite, destinata poi ad innamorarsi perdutamente del fanciullo, di cui cercherà di condizionare il futuro fin da bambino e per il quale verserà lacrime di disperazione al momento della sua morte. Anche in questo caso, la narrazione ci dimostra come anche per gli dèi vi sia un destino superiore. La potente e seducente Afrodite deve inchinarsi davanti al fato che avviluppa tra le sue trame sia gli uomini che le divinità. La dea della bellezza appare vittima del suo stesso progetto scellerato, potendo “sopravvivere” al suo amato grazie all’immortalità garantita dalla propria condizione olimpica e intercedendo presso Zeus, affinché Adone possa riemergere dal regno dei morti, seppure a tempo limitato. In una trasfigurazione ermetica del mito, possiamo intuire come la narrazione di Adone costituisca la metafora dell’eterno ciclo del cosmo e del rinnovamento spirituale, come percorso iniziatico verso la consapevolezza interiore. Nel contempo emerge come l’ideale della bellezza e dell’armonia come valori prettamente esteriori e fugaci debba cedere davanti alle qualità spirituali solide e durature.
Nelle rappresentazioni storiche dell’epoca classica, Adone è raffigurato con la predominanza di aspetti piuttosto delicati e sfumati. Già in alcune pitture pompeiane e della “Domus Aurea” (12) appaiono immagini della sua peculiare nascita dal tronco di un albero, mentre altri episodi dell’immaginaria vita di Adone, come la disputa tra Afrodite e Persefone, la partenza per la caccia o il ferimento del giovane, sono stati ritrovati su vasi e specchi di fattura italiota o più di frequente etrusca. Ma il mito di Adone e di Afrodite diventa uno dei temi preferiti dagli artisti del tardo Rinascimento e del Barocco. In tali contesti culturali, basti ricordare alle mirabili opere di Tiziano (Venere e Adone), di Paolo Veronese (Venere e Adone), di Rubens (Adone trattenuto da Venere) e di Luca Giordano (La morte di Adone). La scultura sul tema più conosciuta è forse quella completata da Antonio Canova nel 1794, senza alcuna commissione iniziale, poi acquistata dal genovese Giovan Domenico Berio di Salza, che la collocò nel giardino del proprio palazzo di Napoli, in una delle vie principali della metropoli, Via Toledo. La pregevole opera neoclassica è oggi esposta al Musee d’Art et d’Histoire di Ginevra. Nel gruppo scultoreo l’artista cerca di catturare il momento dell’estremo saluto tra la dea Afrodite ed il giovane che verrà poi ucciso dal cinghiale inviato dal geloso Ares. I due amanti sembrano fuori dalla realtà, mentre vivono un attimo di intensa e struggente intimità, fissandosi con grande dolcezza e complicità. Con tenerezza Afrodite accarezza il volto di Adone quasi come se volesse trattenerlo da un infausto destino, abbandonando la testa sulle sue spalle. Adone, invece, scolpito con tratti efebici, forse per esaltarne la giovanissima età, è spostato con il piede sinistro in avanti, in una posa dinamica, ma sul suo viso si legge un’espressione malinconica come se avesse un triste presagio dell’imminente sorte avversa.
Dal punto di vista letterario, la tradizione relativa al mito di Adone ed Afrodite raggiunge la sua compiutezza nelle già citate Metamorfosi di Ovidio, la cui trattazione ha influito sull’intero immaginario collettivo delle epoche successive nell’attribuire una coerenza narrativa al racconto. In parallelo alla rivalutazione del mito nelle arti figurative, si colloca la poesia composta da William Shakespeare nel 1593, Venus and Adonis (13), dove Adone viene trasfigurato in un casto ed avvenente giovanotto sedotto da una maliziosa quanto esperta cortigiana di alto rango. Molto complessa è la trama del lungo poema di Giambattista Marino del 1623, Adone, opera che si fa fatica a seguire per le continue digressioni rispetto alle gesta principali dei protagonisti (14).
Se vogliamo riportare qualcosa del contenuto originario del mito nella frase adoperata oggi nel linguaggio comune, “sei un Adone”, oppure “essere un Adone”, non possiamo e non dobbiamo fermarci al significato apparente. Se Adone, infatti, può essere considerato il simbolo della bellezza, dell’armonia e del vigore giovanile, all’opposto diventa anche la metafora della caducità e della infelicità umana, quasi “maledetto” per il suo eccezionale aspetto fisico. Il racconto di Adone ci parla di morte e di lutto, ma ci infonde speranza, ricordandoci che non siamo altro che una minuscola particella nel continuo divenire del ciclo cosmico.
Note:
(1) Cfr. Pierre Grimal, Enciclopedia dei miti, Ed. Garzanti, Milano 1997;
(2) Cfr. James Frazer, Il ramo d’oro, Ed. Bollati Boringhieri, Torino 2012;
(3) Si tratta probabilmente delle “Tesmoforie” che ricorrevano alla fine del nostro mese di ottobre;
(4) Cfr. Igino, Fabulae, 58 e 161;
(5) Cfr. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, Adelphi editore, Milano 1995;
(6) Cfr. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio, Mimesis edizioni, Milano 2013;
(7) Alcune fonti minori indicano Priapo anche figlio di Ermes, di Ares o di Zeus;
(8) Secondo una parte della tradizione, gli anemoni si sarebbero sviluppati direttamente dalle lacrime di Venere;
(9) Cfr. M. Detienne, I giardini di Adone, introduzione di J-P. Vernant, Ed. Einaudi, Toirno 1975;
(10) Ovidio, Metamorfosi, libro X;
(11) L’etimologia richiama il significato di “commettere un errore”, o più letteralmente “mettere un piede in fallo”, probabilmente derivante dall’antico aggettivo “peccus” (dal piede difettoso);
(12) Come è noto il luogo è compreso nel Parco Archeologico del Colosseo a Roma;
(13) Il citato poema, pubblicato nel 1593, fu dedicato ad Henry Wriotehsly;
(14) Cfr. Giambattista Marino, L’Adone, curatore Emilio Russo, Rizzoli editore, Milano 2018.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense e due master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nel 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 8 volumi: Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio e Sulla fine dei tempi. Con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; la trilogia thriller- filosofica “La redenzione di Satana” (Apocatastasi-Apostasia-Apocalisse); il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers”; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”ed una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Con Auralcrave ha pubblicato la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa” ed ha collaborato al “Sipario strappato”. Nel 2021 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.