
Il Fato, la volontà umana e il senso della terra – Luigi Mancuso
In uno dei numerosi racconti sullo Zen, viene narrato come il guerriero giapponese Nobunaga volesse attaccare il nemico di gran lunga superiore di numero al suo esercito. Nobunaga sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi uomini erano dubbiosi. Così, Nobunaga andò in un Tempio a pregare e disse ai suoi uomini che avrebbe poi tirato una moneta. Se fosse venuta testa avrebbero vinto la battaglia, in caso contrario avrebbero perso. <<Siamo nelle mani del destino>>, disse. Alla fine, venne testa e i soldati di Nobunaga, convinti di avere il favore del Divino dalla loro parte, sbaragliarono il nemico. A battaglia conclusa, l’aiutante di Nobunaga disse al suo comandante: <<nessuno può cambiare il destino.>>. <<No davvero>>, rispose di rimando Nobunaga mostrandogli la moneta, che aveva testa su tutte e due le facce [i].
Questo episodio mette in luce una grande affinità con la Religio Romana e, in particolar modo un episodio che vide per protagonista il conquistatore di Siracusa, Claudio Marcello. Egli aveva vinto i Galli a Clastidium riuscendo nel corso della battaglia a piegare un segno sfavorevole, ovvero il suo cavallo che si era imbizzarrito per il fragore dello scontro. Marcello finse di voltarsi per adorare il Sole in modo tale che il suo esercito non venisse condizionato da questo presagio funesto[ii]. Eppure, anni dopo, nella guerra contro Annibale, Claudio Marcello perì in uno scontro campale contro il comandante punico per la smania di volerlo affrontare in combattimento e in più gli auspici si erano mostrati sfavorevoli. Episodi dello stesso tipo si ripetono durante la seconda guerra punica. Lucio Emilio Paolo, per esempio, trasse auspici favorevoli prima della battaglia di Canne. Questo, in teoria avrebbe dovuto tradursi in una sicura vittoria per i Romani, quando poi, com’è noto, lo scontro si risolse in una terribile disfatta. Come può essere spiegato il successo o il fallimento di una battaglia se la pratica divinatoria sembra, apparentemente, da una parte non fondamentale o fatale se viene ignorata? Per comprendere ciò dobbiamo penetrare la logica dell’uomo antico, i cui ragionamenti e modi di approcciarsi al sacro non sono sempre facilmente comprensibili. In particolar modo, la concezione del Fatum del favore divino in cui il Romano viveva. L’idea del Fatum non ha niente a che fare con qualcosa di “fatalistico” in senso moderno, ma è invece la consapevolezza di trovarsi in un solco tracciato dalle Divinità e a cui l’uomo si adegua proprio in virtù del rispetto dovuto alla norma sacra. Non sono accadute di rado le volte in cui i Romani hanno “piegato” determinati eventi facendo intendere di avere il favore divino dalla loro parte. L’uomo moderno può essere portato a pensare che il suo antenato dell’evo antico fosse sostanzialmente e superstizioso e “ignorante”. Quest’ultima affermazione è particolarmente vera. L’uomo romano, che era contadino e al contempo soldato, non era colto come lo intendiamo noi oggi, perché la sua conoscenza non si basava sui libri. Aveva dentro di sé quella capacità di essere in contatto perenne con gli Dèi e questo è il cultus Deorum, l’unica forma di cultura che fosse veramente degna di essere chiamata tale. Come disse Pio Filippani Ronconi, in una sua conferenza, nel descrivere l”incoltura” dei Romani:<<… era della gente piuttosto rozza, semplice e primitiva, la quale però aveva il senso della propria presenza, della propria potenza, ed aveva il senso della Terra.>>[iii], e poi, continua il patrizio romano:<< Nel campo degli uomini quello che domina è lo ius, nel campo degli Dèi ciò che domina è il fas. Sono i due piani, il piano terrestre e il piano celeste.>>[iv]. Una consapevolezza e una disposizione spirituale che prefigura una nobiltà d’animo interiore e quanto espresso da Pio Filippani Ronconi trova un suo corrispettivo anche nel pensiero di Evola, il quale individuava nella “incoltura” e “ignoranza” dei Romani, rispetto a popoli quali i Greci e gli Etruschi, una forza più originaria[v] di fronte a civiltà decadenti o sulla via della loro dissoluzione, tant’è che <<la prima testimonianza che in Grecia si ebbe di Roma, è quella di un ambasciatore. il quale confessa che, mentre nel Senato romano pensava di trovarsi come in un’accolta di barbari, vi si trovò invece come in un concilio di re.>>[vi]
Con il termine Ārya, che nella civiltà indiana designava il Nobile o “appartenente ai fidati e ai leali”[vii], si era soliti indicare anche l’uomo nobile non solo di nascita, ma anche elevato spiritualmente perché dedito alla cura della religione e della cultura vedica. Questo termine che esprime lo “splendore” interiore dell’uomo si può trovare racchiuso, attraverso la radice “ar”, anche in nomi appartenenti alle altre culture indoeuropee. Tra i Germani abbiamo Ariovisto, i Romani Artorius, per i Persiani e i Parti Ariobarzane (Arya-barzā̆n) e ancora per l’India abbiamo il nome Arjuna (Lo Splendente) e nel Buddhismo la “Nobile Verità” viene chiamata “Ariyasacca”. Questa radice “ar” è presente anche nel termine “ărāre”, quindi relativo alla coltivazione del campo. Il nesso che intercorre tra la nobiltà dell’animo e la coltivazione della terra è un tratto fondamentale della cultura romana, poiché la coltivazione del campo è strettamente connessa con l’osservanza delle leggi umane e divine racchiuse nella Pietas e nella consapevolezza di essere parte di una comunità spirituale delimitata da sacri confini rituali. Non a caso il lessico religioso romano combacia perfettamente anche con quello agricolo, poiché il magistrato dotato di Imperium, detentore degli auspicia populi romani, tramite l’azione bellica riorganizza lo spazio, seguendo quindi la logica del contadino che “divide” la terra e la “riforma” per adattarla alla coltivazione e dall’altra la legge romana quale azione trasformatrice del mondo in “Orbis romanus”. Una logica che trova il suo fondamento in tempi precedenti la fondazione dell’Urbe, quando le comunità latine vedevano nel reietto colui che aveva minacciato la sicurezza della comunità e per questo cacciato dallo spazio consacrato dell’abitato urbano per affrontare “lo spazio esterno” delle foreste del Lazio con tutti i rischi che poteva comportare. La Legge romana viene quindi racchiusa nel simbolo del fascio littorio, dalle verghe di betulla (fasces) dei contadini-guerrieri del Lazio agreste che si stringono attorno all’ascia atta a proteggere la comunità e a punire gli empi. Così come a Roma, nella cultura indiana il campo è la metafora del corpo umano e i Sapienti chiamano Conoscitore del campo il soggetto conoscente[viii] e coloro i quali <<attraverso l’occhio della conoscenza realizzano la differenza tra campo e il Conoscitore del campo e che comprendono cosa sia la Liberazione dal mondo prodotto dalla natura materiale, conseguiranno il sommo Bene nel Supremo.>>[ix]. L’uomo, in quanto sacerdote e guerriero, è un ponte tra la terra e il cielo. Il filosofo Friedrich Nietzsche, parlando per bocca di Zarathustra, ci ricorda una grande verità: <<Il super uomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!>>[x]. Questa devozione religiosa non aveva alcunché di passionale, ma il Dio si manifestava come Numen, come forza agente nella realtà[xi]. Caratteristica questa che la religione capitolina condivide con l’induismo, che non si spinse mai troppo in là verso una morale o una via sentimentalista[xii]. Per le civiltà Indo-Arie non era il non “credere” in un Dio, ma l’aver negletto i riti che costituiva il sacrilegium[xiii]. Tutto questo non ha nulla a che vedere con una sorta di vuoto formalismo rituale, quanto, piuttosto, una nuda legge dell’azione spirituale[xiv].
Dopo quanto scritto, risulta, apparentemente, al quanto controproducente voler andare contro il volere divino, sapendo che questo atto avrebbe generato effetti nefasti verso sé stessi e la comunità. Quindi perché ignorare i segni fatali per un popolo come quello romano, rispettosissimo della loro religio? Cicerone affermava con orgoglio che i Romani superavano tutti i popoli del mondo in virtù dell’osservanza delle leggi divine[xv]. Per provare a scogliere questo apparente nodo gordiano, è opportuno abbandonare il nostro modo quotidiano di ragionare e sforzarsi di vedere con gli occhi dell’uomo antico e rendere viva ancora adesso la sua azione e la sua visione del mondo. Altrimenti il rischio sarebbe quello di rendere la Romanitas un semplice oggetto di antiquariato a cui togliere la polvere ogni tanto. Già Guénon, a suo tempo, lamentava i limiti della visione occidentale, per esempio, di fronte allo studio delle dottrine orientali[xvi]. È opportuno, quindi, concentrarsi su quegli episodi “secondari” della nostra storia, perché sono proprio quelli, molto spesso, a rivelare molto di più quanto possono fare i grandi avvenimenti ricordati nella storiografia moderna. Accade molto spesso che la critica odierna guarda sempre con una certa superficialità a questi episodi, definendoli semplice propaganda, senza comprendere appieno che ogni avvenimento “storico” nelle società tradizionali è l’emanazione di un principio trascendente che rimanda a una specifica realtà divina. Volendo ritornare all’India, la legge del Manu non è da attribuire, per esempio, a un determinato personaggio storico realmente esistito, ma rimanda al <<pensiero riflesso nell’ordine universale>>[xvii], che di conseguenza si attua nel mondo degli uomini attraverso <<l’osservanza dei rapporti gerarchici naturali che esistono fra gli esseri sottoposti alle condizioni specifiche di quel ciclo o collettività, con l’insieme delle prescrizioni che normalmente ne risultano.>>[xviii]
L’uomo romano non aveva una concezione del Fatum inteso come forza cieca e casuale, ma come una “indicazione” di ciò che sarebbe potuto accadere o no, quindi come volontà intelligente che promana dalle potenze olimpiche[xix]. Esistevano “segni fatali” dati da un auspicio sfavorevole che potevano essere anche liberamente ignorati[xx]. Volendo tradurre il tutto in termini moderni, il segnale dato dagli Dèi si mostrava “tendenzialmente favorevole” o “tendenzialmente sfavorevole”, ma stava all’uomo, con la sua azione, il vincere o perdere una battaglia. <Gli auspici favorevoli, infatti, non garantivano il successo; essi mostravano solo il permesso accordato dagli dèi per ciò che si stava per compiere.>>[xxi], oppure, gli auspici potevano annunciare anche prossima ventura, però il Romano non ne prendeva atto se, in anticipo aveva provveduto ad annullarla[xxii]. Questo perché, si potrebbe tranquillamente affermare, che l’ordinamento divino connesso al Fato giunge solo fino ad un certo limite e oltre questo limite cessa di essere potenziale e diventa invece tendenziale[xxiii]. È a questo punto che prende forma il mondo volgarmente detto “umano e storico”, dove le azioni umane non sono altro che la diretta continuazione del mondo divino, che vengono eseguite in conformità ad un principio trascendente. Ecco perché per il Romano era fondamentale trarre gli auspici, se questi fossero stati favorevoli la sua azione sarebbe rientrata in ciò che era fausto (Fas), altrimenti scadeva nel nefasto (nefas), o come direbbero gli indù in ciò che è contrario alla legge cosmica del Dharma e quindi adharma, inteso come la “non-conformità” con la natura degli esseri, lo squilibrio e la rottura dell’armonia, oppure la distruzione e il sovvertimento dei naturali rapporti gerarchici.[xxiv] Ma in quello spiraglio. In quel margine di azione che viene lasciato all’agire umano quella possibilità di eseguire per un fine più alto indipendentemente dalla sua volontà, ma piuttosto legato alla consapevolezza di essere a metà strada tra gli uomini e gli Dèi. Evola fa notare come la fortuna e la felicitas di Roma appaiono come una faccia del Fatum e il capo di un determinato popolo, quindi, ha in sé quella potenza religiosa e “sovrumana” che lo rende vittorioso in virtù di una aderenza alle norme divine e ciò voleva sottolineare a quel punto come il condottiero fosse “fortunato” e “felice”[xxv], quindi garante della Vittoria su ogni nemico. Il condottiero o il Re, in tutte le società tradizionali, è un ponte metafisico che si fa portatore della virtus del suo popolo. Dato che ho accennato alla seconda guerra punica, proprio Scipione e Annibale, attraverso il loro charisma[xxvi], hanno saputo farsi portavoce in guerra delle rispettive culture e visioni del mondo. Si ha, dalla parte dei Romani, la comparsa e l’azione provvidenziale di Scipione l’Africano, il quale si erge nel momento di caos come guida dei sopravvissuti a Canne, venendo descritto da Livio, non a caso, come fatalis Dux della guerra contro Cartagine[xxvii]. Valerio Massimo contrappone poi il perenne contatto tra Scipione e gli Dèi, con la volontà personale di Annibale, sebbene anche lo stesso condottiero punico abbia ricevuto un segno della sua grandezza futura. Ma andiamo con ordine. Scipione è uno strumento degli Dèi e senza il consenso di Giove Roma non può vincere contro Annibale. In Scipione si coagula la potenza stessa di Roma ed è sempre Valerio Massimo che ci offre una importante testimonianza in merito alla spiritualità dei nostri avi, rimarcando a più riprese la moderazione, moderatio, dell’uomo che aveva battuto Annibale. È conosciuta a tutti la vicenda che vide Scipione sotto processo dopo il ritorno della campagna d’Asia contro Antioco il Grande, ma poco noto è il fatto che, sebbene accusato di fronte al Senato e al popolo di Roma, Scipione decise di celebrare i riti in onore di Giove, proprio in occasione dell’anniversario della vittoria contro Cartagine conseguita anni prima. Ribadì quindi la sua innocenza davanti ai Padri del Senato e poi invitò il popolo e i senatori a seguirlo sul Campidoglio per onorare gli Dèi. Non rimase nessuno per le vie di Roma. Tutti assistettero a quella dimostrazione di charisma del più grande Romano del suo tempo[xxviii]. Dall’altro lato, invece, Annibale riceve una visita da Giove in sogno, dove il generale punico seguì le orme di un uomo gigantesco che lo avrebbe guidato nella invasione dell’Italia. Ma non appena decise di voltarsi, vide un drago mostruoso che, strisciando, distruggeva ogni cosa al suo passaggio e la luce del giorno divenire oscurata dalla nebbia. A quel punto, Annibale fu terrorizzato da questa visione e chiese al gigante cosa volesse significare. Il colosso rispose che davanti a lui si prefigurava la devastazione dell’Italia, ma ora doveva tacere e attendere il destino che agisce in silenzio[xxix].
Cosa vuol significare questo episodio? Il gesto è inteso come un atto di Hybris o lascivia nei confronti degli Dèi. Il voler guardare indietro equivale in questo caso a un voler ignorare volutamente un aiuto divino per agire individualisticamente per soddisfare i propri desideri personali[xxx]. Un esempio analogo che si riscontra nell’Ellade, quando Aiace rifiuta volontariamente l’aiuto degli Dèi in battaglia e per questo reso poi folle da Atena. Sia Aiace che Annibale incarnano il modello dell’uomo che ha rifiutato un aiuto divino e per questo distrutti. Il primo condotto alla follia e al suicidio, il secondo con la perdita dei suoi fratelli, con il fallimento della guerra contro Roma e, infine, l’esilio. Conforme, invece, alle leggi divine è Scipione l’Africano, sempre attento ai segni e ai presagi, il quale fa agire la sua volontà in conformità alla gerarchia dell’ordine dato dagli Dèi. La volontà di Scipione diventa il tramite per salvare Roma dalla guerra annibalica. Ecco perché Scipione è definito da Livio fatalis dux, perché attraverso di lui promana la forza stessa del popolo romano, che afferma sé stesso nella storia in accordo con la potenza dei i suoi Dèi. Uno spirito capace di ribaltare e soggiogare ogni circostanza, anche se avversa. Proprio perché l’uomo è libero di agire, può scegliere se uniformarsi a un principio superiore, la Bhagavadgita direbbe far congiungere l’Io con il Sé[xxxi], oppure gettare i semi della sua stessa distruzione. Annibale non fu mai battuto in battaglia, né al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, ma il successo più memorabile della battaglia di Canne aveva già in sé i germi della disfatta per il condottiero punico, mentre l’ora più nera di Roma, seguendo la logica degli antichi, gettava le basi per la sua grandezza futura. Nel momento più critico della guerra, fu decisiva la ferrea volontà del Senato di non trattare con Annibale, a simboleggiare sia fisicamente che spiritualmente la consapevolezza che Roma doveva ergersi come baluardo dell’Italia intera e quello stesso spirito combattivo dei Padri del Senato trovò un validissimo corrispettivo nella convinzione, da parte del futuro Africanus, di raccogliere intoro a sé le forze malconce e dissanguate degli uomini che avevano combattuto a Canne. Sarebbe stato un ulteriore segno del Fatum il fatto che furono proprio quegli uomini sconfitti e umiliati in una delle peggiori disfatte militari della storia di Roma a conseguire la vittoria finale su Annibale a Zama, per far sì che si continuasse a preservare il pactum dell’Urbe con gli Dèi. Per concludere, Roma seppe incarnare un modello di guerra spirituale: <<la buona guerra che santifica ogni cosa.>>[xxxii], perché <<la guerra e il coraggio hanno fatto grandi cose, più che non l’amore per il prossimo. Non la vostra compassione, ma il vostro coraggio ha finora salvato le persone in pericolo.>>[xxxiii]
Note:
[i] 101 storie Zen, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi Edizioni 1973, p. 74.
[ii] Plutarco, Marcello, VI, 10-12.
[iii] P. F. Ronconi, relazione presso l’Ass. Fons Perennis di Roma.
[iv] Ibidem.
[v] J. Evola. Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee 1969, p. 330.
[vi] Ibidem, p. 330; cfr. Plutarco, Pirro, XIX, 5.
[vii] Inni del Rg Veda, a cura di Valentino Papesso, Ubaldini Editore Roma 1931, dall’introduzione di Icilio Vecchiotti, p. 29.
[viii] Bhagavadgita, XIII, 1.
[ix] Ibidem, XIII, 34.
[x] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi Edizioni p. 6.
[xi] J. Evola. Rivolta contro il mondo moderno, p. 65-66.
[xii] R. Guènon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, p. 150.
[xiii] J. Evola. Rivolta contro il mondo moderno, p. 68.
[xiv] Ibidem, p. 68.
[xv] Cicerone, De haruspicium responsis, 19.
[xvii] Ibidem, p. 152.
[xviii] Ibidem, p. 152-153.
[xix] J. Evola. L’arco e la clava, Edizioni Mediterranee Roma 2000, p. 55.
[xx] C. Rutilio, Pax Deorum: La religione Prisca di Roma, Edizioni Arktos 2013, p. 36-37.
[xxi] G. Fonti, Funzioni e caratteri del <<pullarius>> in età repubblicana e imperiale, in <<Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano>>, LXIV-II, (2011), p. 117.
[xxii] C. Rutilio, Pax Deorum: La religione Prisca di Roma, p. 37.
[xxiii] J. Evola. L’arco e la clava, p. 57.
[xxiv] R. Guènon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, p. 151.
[xxv]J. Evola. L’arco e la clava, p. 56.
[xxvi] Per <<Charisma>> si intende la forza mistica del comando conferita dalle Divinità a un uomo.
[xxvii] Livio, XXII, 53.
[xxviii] Valerius, 3.7.1.
[xxix] Valerius, 1.7. ext.1.
[xxx] H.F. Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus, Taylor & Francis Group 2002, p. 100.
[xxxi] Bhagavadgita,
[xxxii] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 49.
[xxxiii] Ibidem, p. 50.
Luigi Mancuso