Il fondamento dell’Essere e del Pensiero – Andrea Cecchetto
Le esperienze mistico-spirituali non sono comunicabili, in quanto il linguaggio è formale; lo Spirito, però, trascende le forme. Ma se noi volessimo descrivere il reale nel modo più vicino al Vero [o almeno, il più distante possibile dal falso] mediante il linguaggio e la logica [da logos], dovremmo preliminarmente compiere la seguente operazione: rimuovere tutti gli schemi mentali pregressi, le nozioni, le teorie, le conoscenze [anche quelle sensibili], i giudizi e le concezioni che abbiamo sul mondo, riconoscendone l’arbitrarietà e la relatività, al fine di giungere al fondamento primo e ultimo di tutto il nostro sapere, che non possiamo che immaginare come un “vuoto originario”. Ma ci ritorneremo tra poco, dopo una piccolissima digressione.
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Due sono i compiti principali della filosofia:
- Chiedersi, come Kant: “Che cosa posso conoscere?” [e poi vivere in conformità di ciò; ma qui si aprirebbe un altro discorso].
- Prendere coscienza dei propri limiti, e quindi indagare – per quanto possibile – il Tutto, cioè la Realtà considerata nella sua interezza.

Le scienze non lo possono fare, giacché studiano aspetti particolari dell’esistenza [fisica, cosmologia, chimica, biologia, psicologia, ecc.], non l’indivisa totalità. E soprattutto essa studia oggetti; non arriva allo stadio gnoseologico precedente alla separazione arbitraria tra soggetto osservatore ed oggetto osservato, e, anche quando sostiene di studiare soggetti [con la psicologia], studia in verità oggetti [i pazienti]:
“Ben lungi dall’aver raggiunto la dimensione del «pensare puro», la Dottrina della scienza rimane affetta dal dualismo di io e non-io: in essa, il pensiero non annienta il proprio «correlatum» […], anzi se lo vede rispuntare da capo a ogni momento nelle varie maschere del non-io” (Gianluca Garelli; Sogni di spiriti immondi. Storia e critica della ragione onirica, p. 374).
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Quindi, ricollegandomi a quanto detto sopra, facciamo idealmente ritorno al vuoto originario, allo stato privo di interpretazioni. Ecco, è già necessario un chiarimento: ho scritto vuoto originario, e già potremmo ricadere in concettualizzazioni. Il termine vuoto, infatti, rimanda a uno spazio nel quale non vi è nulla. Ma già quella di spazio è una nostra concezione a priori, una condizione categoriale, l’ambito gnoseologico [ossia conoscitivo] o il contenitore universale nel quale disponiamo e giustapponiamo idealmente gli oggetti fisici, materiali. Parimenti, il termine originario potrebbe far pensare a un inizio nel tempo, a un passato che risale a prima che iniziasse il divenire. Quindi anche il tempo è una condizione categoriale a priori, una linea ideale in cui poniamo gli eventi in successione causale. Questo è un punto importante: quando i testi tradizionali parlano di inizio, di origine, non intendono un momento passato posto prima che vi fosse il tempo, ma di una anteriorità logico-metafisica, come a dire: ciò che viene “dopo” dipende totalmente da ciò che si trova gerarchicamente “prima”.
Insomma, parlando di “vuoto originario” siamo partiti con il piede sbagliato. Abbiamo infatti eliminato gli oggetti e gli eventi, ma non gli ambiti concettuali [spazio e tempo] nel quali li collochiamo. Senza contare che, parlando di una pluralità di oggetti e di eventi, abbiamo necessariamente dovuto fare ricorso ad altre due categorie, le quali vanno considerate sempre assieme: la quantità numerica [tramite la quale enumeriamo gli enti], e la relazione [ossia le interazioni tra di essi; ci basti solo la più semplice: la relazione di coesistenza].
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Ma non dovevamo rimuovere tutto? Non ci eravamo prefissati di cogliere il fondamento ultimo su cui poggia la nostra conoscenza? Ebbene, non ci siamo giunti, perché ci ritroviamo ancora con un bel po’ di cose. È chiaro che l’espressione vuoto originario tende a trarci in inganno. Dobbiamo essere più drastici e parlare di “Nulla”, tenendo però ben presente che non stiamo parlando del niente, del nulla inteso come assenza totale di enti [e che scrivo in minuscolo], ma del Nulla come assenza di concezioni, determinazioni, condizioni categoriali; un Nulla dal quale noi in qualche modo traiamo concettualmente il Tutto. Lo chiamo Nulla perché l’essere e le cose che sono vengono “dopo”. Insomma, è il Nulla-di-determinato, che potremmo chiamare anche Assoluto, “Uno”, Brahman, Deus absconditus, Tao, En Sof, ecc.
Ci troviamo quindi con questo “Nulla” fecondo. E come facciamo, da qui, a giustificare il passaggio dal Nulla al Tutto? Siamo costretti a “farci un racconto”, consapevoli però che da qui in poi non siamo più nella Realtà Vera, bensì già nell’opinione [doxa]. Tale consapevolezza sulla relatività del nostro racconto, però, ci pone non in opposizione al Vero, ma in qualche modo sintonia e in armonia con esso. Gli studiosi di Parmenide potrebbero parlare di opinione verace [la “terza via”].
Ebbene, simbolicamente tale Nulla deve aver pensato [= detto a se stesso]: “Sono!”, ed in tal modo si è affermato, si è posto in essere. Si potrebbe ricollegarci a Cartesio. Quest’ultimo dubita di tutto, fa tabula rasa di tutte le conoscenze [come abbiamo fatto noi]; e, così facendo, si rende conto che sta dubitando, dunque pensando. Ma se penso, dice, significa che io sono [Cogito ergo sum]. Come potrei pensare se prima non fossi? Egli pone quindi dapprima l’essere e poi il pensiero, tramite il quale l’essere [lui] prende consapevolezza di sé, del fatto di esistere.

Ma nemmeno Cartesio ha rimosso tutto. Egli, infatti, giustamente afferma la realtà dell’essere e del pensiero, però li attribuisce ad un ente determinato: il soggetto individuale [= l’“Io”]. Non si è sottratto all’arbitrarietà. Ha fatto pure di peggio relegando tutta la speculazione filosofica successiva nell’“Io”, imprigionando il sapere nel soggetto, nella singola persona, in una sorta di solipsismo mentale; cosa che ha fatto a poco a poco dimenticare l’Universale, l’Uno-Tutto, l’Assoluto. Da lì in poi, la scienza si occupa dell’oggetto, la filosofia del soggetto. Si è perso nella dualità il vero scopo della filosofia: indagare l’intero.
[…] Cartesio dice che può dubitare di tutto tranne del fatto di dubitare, fondando così la sua prima certezza nel soggetto riflettente (penso dunque sono) […]; quanto alla dimostrazione effettiva e oggettiva di qualcosa di esterno e reale, manca di qualsiasi validità [L’argomentazione cartesiana non è convincente nemmeno nello stretto ambito delle idee: Lichtenberg fu il primo a dimostrare che il fatto di dubitare e di pensare prova soltanto l’esistenza di un pensiero, un’attività o un processo del pensare, non necessariamente un soggetto (“io”) del pensiero]. La filosofia cartesiana si muove quindi in un circuito chiuso, girando in tondo, e ha un qualcosa di autistico. Per quanto sostenga il contrario, Cartesio non è uscito dal proprio solipsismo, ma continua concentrato su se stesso (Joan Solé; Kant. La rivoluzione copernicana nella filosofia, pp. 14-15).
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Queste [pur geniali] intuizioni di Cartesio fanno parte del normale decadimento ontologico di una civiltà, ovverosia dell’allontanamento graduale dal Principio indiviso verso forme sempre più frammentarie, condizionate, individualizzate, e quindi determinate [ossia limitate]. Dobbiamo fare ritorno all’Universale. Non è l’individuo la fonte di Essere e Pensiero, ma la Realtà scevra da categorie, quel Nulla divino di cui parlavamo sopra, che “è” impersonale, incondizionato, irrelato, del tutto indeterminato, e del quale l’Essere e il Pensiero – o la Parola, sua espressione simbolica – sono le sia pur primissime determinazioni:
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu (Libro della Genesi, 1, 3).
Non vi è, come dice Cartesio, dapprima l’essere, il quale, pensando, prende consapevolezza che già da prima era. No! Essere e Pensiero si affermano a vicenda, coincidono [almeno a questo livello principiale]. Il Pensiero è Pensiero dell’Essere, ma L’Essere è perché pensa ed è ciò che pensa. Questa non-alterità tra l’Essere e il Pensiero è Vita metafisica, relazione, auto-contemplazione, Spirito. Il Padre della Trinità è l’Essere, il Figlio è il Pensiero, la loro relazione è lo Spirito Santo. Gli Indù li chiamano Sat, Chit e Ânanda. Il termine spirito è legato a respiro: espirazione-e-inspirazione, manifestazione e riassorbimento [tramite auto-identificazione] del Pensiero nell’Essere.
Egli (l’Uno) trabocca, per così esprimerci, e la sua esuberanza dà origine a una realtà novella; ma l’essere così generato si rivolge appena a Lui ed eccolo già riempito; e, nascendo, volge il suo sguardo su di se stesso ed eccolo Spirito. Precisiamo ancora: il suo fermo orientamento verso l’Uno crea l’Essere; la contemplazione che l’Essere volge a se stesso crea lo Spirito. Ora, poiché lo Spirito, per contemplarsi, deve pur stare orientato verso se stesso, Egli diviene simultaneamente Spirito ed Essere (Plotino; Enneadi, V, 2, 1).

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Quindi, abbiamo detto, il Nulla ha originato l’Essere semplicemente pensandosi, dicendo: “Sono!”. Ma da qui com’è avvenuto il passaggio al molteplice? Dobbiamo immaginare che si sia chiesto: “Ma che cosa sono?”, e abbia iniziato – sempre in senso logico – a pensare [= creare] dei contenuti oggettivi. Da qui si genera tutta la molteplicità numerica del reale, con le sue diversità formali, il movimento spazio-temporale, la materia-energia, la vita organica, la mente, l’“Io” individuale, ecc. [insomma, tutte quelle determinazioni che, aggiunte in ordine una per volta, possono farci parlare di “livelli” della Realtà condizionata]. Per ultima viene la logica razionale, colei che ha elaborato tutta questa struttura metafisica per rendersi almeno in parte intelligibile il reale.
Andrea Cecchetto
