Il mito di Er quale “topografia “ dell’ aldilà o epifania delle “madri” eteriche” ? – 1^ parte – Aurelio Bruno
LA VEXATA QUAESTIO DELLA TOPOGRAFIA DEL MITO DI ER
La scena del Mito di ER, in cui le anime intravedono la struttura dell’universo in una magnifica visione cosmica, ha suscitato tanti tentativi di comprensione solo pari alle perplessità che ne sono derivate. Come nel caso di molte traduzioni infelici di opere cosmogoniche del passato o tentativi di comprensione di monumenti dedicati al culto siderale, quale primo fra tutti il Pantheon di Roma[i], anche in questo caso i vari autori si sono imbarcati in cimenti gravati da pregiudizi culturali secolari. Essi rendono pressoché impossibile la comprensione di simboli e significati antichi agli occhi dei moderni.
Abbiamo detto in un recente testo”[ii] dell’analogia del mito di Er con la discesa all’Ade di Ulisse (Nekya). La differenza più significativa con la Nekya sta fatto che nella Nekyia Odisseo si accosta all’ingresso dell’Ade da vivo, laddove nella Repubblica l’anima di Er penetra dentro l’oltretomba dopo la sua morte. Per questo la topografia dell’oltretomba nel mito della Repubblica è più elaborata e ricca di dettagli paesaggistici e geografici. Esaminiamo, dunque, il tema della presunta “topografia” dell’Oltretomba. Secondo un’ipotesi valida,[iii] le anime del mito di ER si troverebbero a un livello intermedio tra il cielo e gli inferi, da qualche parte sopra la superficie della terra in una posizione intermedia tra cielo e terra, al centro della luce. A supporto di questa tesi si chiama Proclo [iv]. Egli in un passo sopraccitato, infatti, dice:
“ὃ μὲν οὖν δικαστικὸς τόπος ἐστὶν μεταξὺ γῆς καὶ οὐρανοῦ
il luogo stabilito per il giudizio [614c3 s.] si trova in mezzo tra terra e cielo“
Tra cielo e terra ovvero secondo la cosmologia antica, nell’etere. Allo stesso modo per Damascio [v] e per Olimpiodoro [vi] la “regione” corrisponde all’etere. Ma Proclo intende un luogo fisico intermedio o cos’altro? Lo vedremo a breve[vii].

(Immagine 1: TYLER_MILES_LOCKETT, 2023 https://www.reddit.com/r/classics/comments/15327no/platos_spindle_of_necessity_illustrated_by_me/?tl=it&rdt=42723)
La nostra ipotesi, che qui tenteremo di esporre, diverge dalla sopra descritta causa una grossa differenza: non si tratta di una posizione intermedia tra cielo e terra, ma di una “zona” di “non spazio” ove vige solo il tempo, ovvero la “zona” dell’etere. Nella cosmologia antica (vedi nella prima parte), infatti, dopo la Luna cominciava la “zona” dell’etere puro degli dèi; sotto la Luna fino alla Terra stava, invece, la “zona” della corruzione, della mortalità, ovvero dell’etere malsano. Anticipiamo che in entrambe stavano le anime. Quelle nella “zona” cislunare erano in purificazione, area corrispondente al Kamaloka indiano o al Purgatorio cristiano. Mentre nella zona” “ultralunare e nelle superiori sfere astrali stavano le anime post-purgazione, ovvero nella regione corrispondente al cosiddetto Devachan.
L’individuare nella detta “zona” eterica ultra-lunare strutture spaziali, ovvero delle cose materiali, è cosa estranea alla concezione antica dell’etere. Spiegheremo tra poco perché. Facciamo un passo indietro e vediamo ora le varie teorie sulla posizione “topografica” dei testimoni della “scena” delle Moire. Le ipotesi sulla posizione del luogo di raccolta delle anime post mortem rientrano in tre categorie principali: 1) sotto la superficie della terra,[viii] 2) sulla terra, ed esattamente, al centro della terra,[ix] 3) a un livello intermedio tra cielo e terra.[x] A queste ipotesi bisognerebbe aggiungere una quarta: 4) nell’etere, non-luogo delle anime, come abbiamo visto nella prima parte, la nostra ipotesi. La terza ipotesi ammette in effetti un margine di movimento (ammesso che vi possa essere un “movimento spaziale”) da parte delle anime ovvero essa crea uno spazio tra il cielo e la terra perché la scena si svolga in questo contesto.
Le anime scese dal cielo o risalite dagli inferi, si riuniscono in un prato, in una regione intermedia, al di sopra della superficie della terra. Nel passo iniziale vediamo il luogo ove si è svolto il giudizio in mezzo alle voragini (chasmata):
“Disse che, come l’anima si era separata da lui, si era messa in viaggio insieme a molte altre, finché non giunsero in un luogo meraviglioso, nel quale si aprivano, a poca distanza l’una dall’altra, due voragini sulla terra e, in perfetta corrispondenza, altrettante su nel cielo. In mezzo sedevano dei giudici…”.
Nel passo successivo il ritorno delle anime dal cielo e dagli inferi
“Invece, per quanto concerne le altre due voragini, da una sbucavano anime sudice di terra e di polvere, dall’altra scendevano anime diverse, del tutto pure, provenienti dal cielo. E quelle che continuamente arrivavano davano l’impressione di aver concluso un lungo viaggio e nel giungere sul prato avevano l’aria felice come se si dessero convegno per una festa di paese“.

(Immagine 2 - The Three Fates di Mantheniel)
Ora, se si dovessero tenere per buone le prime due ipotesi, e sempre ammesso che si presupponga un’insistenza delle anime nella nostra stessa dimensione spazio-tempo (cosa che noi contestiamo), ne risulterebbe che le anime in viaggio dovrebbero avere lasciato il livello intermedio del luogo del giudizio e del cosiddetto “prato” (vedremo dopo che cosa è il “prato”) per una seconda destinazione. Il testo, tuttavia, non sostiene queste tesi[xi]. L’unica parola usata per descrivere il movimento delle anime è πορεύεσθαι, che è completamente neutrale rispetto alla direzione del movimento.[xii] Ma anche in questo caso non c’è nulla in questo verbo che indichi un’ascesa così drastica delle anime nell’ipotesi che esse fossero state sotto la superficie della terra, come da ipotesi n.2. L’ipotesi della posizione delle anime al centro della terra è basata sul fatto che, poco più avanti, nel testo si dice che le anime si trovano nel “mezzo della luce”. Tale affermazione viene letta come un centro matematico tra i due poli del Cosmo, tra Urania e Ctonia, ovvero il centro della terra. L’interpretazione è interessante perché presupporrebbe la posizione delle anime al centro della terra reputato dagli antichi insistente al Polo nord e sotto la stella polare ovvero nell’axis mundi. La conferma arriverebbe da un passaggio alla fine del mito: ἄλλον ἄλλη φέρεσθαι ἄνω εἰς τὴν γένεσιν, ἄττοντας ὥσπερ ἀστέρας (Improvvisamente furono portati via, ognuno in modo diverso, fino alla loro nascita, come stelle cadenti).
Sostiene la Schils che un livello intermedio tra cielo e terra, tuttavia, sarebbe più giustificabile perché permetterebbe una corsa verso l’alto, proprio prima della reincarnazione. Sostiene, dunque, la Schils che ci sia una forte continuità tra le due parti principali della narrazione: in questa fase della storia le anime rimarrebbero sullo stesso livello in cui si è svolto il giudizio precedente, a metà tra cielo e terra.[xiii] Le anime vedrebbero, dunque, una luce che si estende attraverso il cielo e la terra, e questo potrebbe implicare che la seguono con l’occhio mentre si estende dall’alto verso il basso, conclude Schils. Tutto ciò è corretto? No.
More solito, gli studiosi contemporanei guardano con occhiali moderni la cultura antica irriducibilmente diversa, antipodale, rispetto alla nostra. Noi non concepiamo nulla che non sia materiale. Per gli antichi la materia era, invece, la parte più bassa, quella più greve, dell’esistenza. Gli antichi parlavano di un aldilà etereo. Noi, non sapendo che cosa sia l’etere, continuiamo, invece, a fare sforzi di interpretazione materialista per ipotizzare un aldilà materiale, da mappare con una topografia ove c’è l’alto e c’è il basso. Ove c’è uno spazio che il concetto stesso di etere non ammette. Tutto ciò detto, anticipiamo, che, pur non essendo un luogo, il concetto di “prato eterico” ove si svolge il giudizio del mito di Er ha una sua sostanza concettuale di tipo astrale. Platone, e Parmenide vedremo, dicevano che dalla Porta dell’Etere (il prato di Platone) partivano le vie di Notte e Giorno (del Capricorno e del Cancro). Quali sarebbero le Porte di Notte e Giorno (del Capricorno e del Cancro) nel mito di Er?
Le due voragini nella Terra e, di fronte a queste, le due nel Cielo che si intersecano esattamente al punto di incrocio della X platonica, di cui abbiamo già trattato. Le due voragini sono ovvero il Cerchio del Diverso”, in orbita lungo l’eclittica con il moto irregolare dato dalla retrogradazione planetaria, che si interseca con il “Cerchio dello Stesso[xiv] ovverosia con quello del moto delle stelle. Là al punto di incrocio della X “sta” il concetto astrale (cioè, un “non luogo”) del “prato eterico” ove si ritrovano le anime per il giudizio. Ne parleremo tra breve. Prima occupiamoci dell’Asse del Mondo e delle voragini.
L’ASSE DEL MONDO DEL MITO DI ER
Abbiamo detto prima che l’asse del mondo è stato variamente rappresentato nelle culture antiche. Rimandiamo a quanto già detto sull’asse del mondo quale albero cosmogonico (l’Yggrdrasil norreno) da Omero, Senofane, Ferecide di Sirio, Porfirio, etc. L’axis mundi (o albero di Yggrdrasil) viene descritto da De Santillana e dalla Dechend[xv], come un asse inserito in un buco circolare che andava dalla Stella Polare, dimora degli dèi, passava per il Polo nord, mondo dei vivi, e scendeva giù fino al mondo dei morti (la parte sottoterra o ctonia). Gli stessi autori identificano lo axis mundi con “l’albero del mulino” (Sampo dal sanscrito Skambha, palo, pilastro) che macina il tempo con il movimento del “coperchio variopinto”[xvi] ovvero il Cielo stellato[xvii] . Anche l’asse, di cui parla Platone, non è affatto quello della terra, ma quello che si distende attraverso il mondo (cosmo), e che ruota quindi con tutta la massa cosmica rispetto all’esterno. Platone parla, cioè, dell’asse del mondo (axis mundi). Leggiamo il commento di Mondolfo:[xviii]
“Le ripetute espressioni di Aristotele, relative ad una rotazione della terra nel centro del cosmo, cioè, distinta dalla rotazione che le attribuisce il sistema pitagorico, insieme con l’antiterra, rotazione che non si effettua nel centro, ma al di fuori del centro e intorno al centro[xix], la definiscono ancora come rotazione che si effettua «intorno all’asse» o «intorno all’asse centrale», senza dire mai «intorno al proprio asse» [xx]”.
Nel mito di Er l’asse del mondo è una colonna di luce. Questa colonna discende dal cielo e la sua luce riempie il cielo, come le corde che tengono avvinta ed unita la trireme. È una visione dell’universo nel suo complesso. La colonna espande la sua luce tutt’intorno alla periferia del cielo e lo avvolge come suo estremo legame; alle estremità delle catene che la tengono avvinta al cielo è appeso il fuso di Ananke, con i suoi otto fusaioli posti l’uno dentro l’altro con i bordi sporgenti e visibili dall’alto. Sin dall’antichità, la colonna di luce è stata interpretata come l’asse che, passando per il centro della terra, attraversa tutto il cosmo, anche sulla base dell’affermazione platonica contenuta nel Timeo.[xxi]
“γῆν δὲ τροφὸν μὲν ἡμετέραν, ἰλλομένην δὲ [c] τὴν περὶ τὸν διὰ παντὸς πόλον τεταμένον
E la terra, la nostra nutrice, stretta intorno all’asse che attraversa l’universo”
Qualche studioso ha dedotto dal fatto che ad Er la luce appaia in forma di colonna che egli sia uno spettatore esterno all’universo, insomma che egli veda il cerchio di profilo[xxii]. Dalle Leggi[xxiii] si potrebbe desumere che la colonna di luce attraversi il cosmo da un polo all’altro, passando per il centro del cosmo, che corrisponde al centro della terra. Ovvero, se assumiamo, come da cosmologia antica, la terra come un disco circolare piatto e stazionario al centro equatoriale della sfera del cosmo, ne riviene che il centro del cosmo sia il centro del disco circolare ovvero il Polo Nord ove insisterebbe l’asse del mondo (o Yggdrasil). Quest’ultimo collegherebbe, dunque, il Polo nord e la stella Polare nella regione uranica. L’asse poi continuerebbe nell’emisfero ctonio del cosmo fino a raggiungere l’altro polo del cosmo. La luce della colonna, che va da un polo all’altro del cosmo, attraverso il centro della Terra, si estenderebbe poi per tutta la circonferenza, similmente all’anima del cosmo, posta al centro e poi tesa tutt’intorno, come dice Platone nel Timeo [xxiv]. Il fuso, appeso all’estremità del cielo, è, però, tenuto sulle ginocchia da Ananke. Il fuso cosmico sulle ginocchia della necessità cosa rappresenta, dunque, per Platone?
La necessità quale legge cosmica, per come abbiamo detto prima. Il fatto che Ananke, la Necessità, di Platone sia circondata e coadiuvata dalle Moire, le quali rappresentano il passato, il presente e il futuro, sottolinea un dettaglio fondamentale: il tempo è sottomesso alla necessità. E il tempo del passato, presente e futuro viene cantato secondo il rigido ordine di Necessità che tiene sulle ginocchia il fuso cosmico. Il tempo che gira attorno all’asse del mondo è, dunque, regolato da Necessità, o meglio, il Tempo è Necessità.
QUATTRO VORAGINI TERRAGNE O CERCHI ASTRALI?
Nel mito di ER platonico[xxv] si parla di quattro voragini (χάσματα) che intersecano il piano ove si raccolgono le anime in attesa del verdetto delle Moire.
“(…) due nella Terra e, proprio di fronte a queste, due nel Cielo. In mezzo a queste siedono giudici che, dopo aver espresso il loro giudizio, ordinano ai giusti di percorrere la strada che va verso destra e sale al Cielo[xxvi]; e agli ingiusti, d’intraprendere il cammino che va verso sinistra e scende nella regione inferiore.[xxvii]”
Le quattro voragini χάσματα, secondo noi, vengono riprese e spiegate meglio nel Timeo. Esse non sono ovvero voragini, ma in un contesto eterico astrale, i cerchi cosmici descritti da Platone nel Timeo. Dunque, non si tratta di tetre voragini di terra, per come la nostra immaginazione abituata alla materia ci induce subito a pensare. Quando Platone parla di χάσματα intende, dunque, figure astrali non di voragini terragne.

(Immagine 3 - Ipotesi di X platonica, quella in neretto al centro, a cura di Robert Hanson. In questa visione essa sarebbe composta dal cerchio del diverso (planetario) e dal cerchio dell'identico (stellare). Al centro la X platonica: un cerchio conduceva alla porta del Capricorno per l'ascesa stellare, l'altro alla porta del Cancro per la discesa sulla Terra. Il piccolo punto nero al centro è la Terra)
Contro questa nostra opinione stanno vari autorevoli studiosi che parlano di “vere e proprie voragini”[xxviii], dimostrando di non riuscire a staccarsi dal pensiero materialista proprio delle proiezioni immaginative spaziali contemporanee. Essi cercano, ovvero, di interpretare con i filmati della NASA il mito di Er…Vediamo cosa volesse, invece, dire Platone. I pochi lettori perdonino la complessità del tema. Non è facile entrare nel weltanschauung antico per degli epigoni di Copernico.
Riprendiamo ora la concezione platonica del Mondo – Cosmo. Parliamo, ora, di cerchi planetari e non di voragini. I Pianeti seguono il “Cerchio del Diverso”, in orbite lungo l’eclittica con il moto irregolare dato dalla retrogradazione. Intersecano poi il “Cerchio dello Stesso[xxix]” con cui, secondo Macrobio, formano una X, in due punti simmetricamente opposti nel cielo. Tale Cerchio dello Stesso è la Via Lattea, [xxx] mentre, come dicevamo, quello del Diverso è dato dai Pianeti, causa l’irregolarità del loro moto dovuto alle orbite retrograde.
Tale X è definita anche Croce Platonica: l’Anima del Mondo ha la forma della lettera greca X (chi). Le due linee che la formano creano infatti un angolo che ha la stessa inclinazione dell’eclittica rispetto all’equatore (23°27’). La X rappresenta, infine, il modo in cui l’Anima Mundi porta le idee alla manifestazione[xxxi] . Nel mito di Er[xxxii] Platone aggiunge, poi, che dopo la morte le anime si ritrovano in un sito[xxxiii], che, come abbiamo sopraccennato, è composto di Etere, fra Cielo e Terra, e precisamente in una prateria sotto la Luna. Dunque? Altre prove sulla nostra tesi circa le “voragini” quali Circoli dello Stesso e del Diverso?
L’INCOMPRESO PARMENIDE CI AIUTA A COMPRENDERE LE VORAGINI PLATONICHE?
Un’interessantissima conferma della nostra tesi ce la fornisce l’incompreso Parmenide. Nel proemio del Περὶ φύσεως questi parla, non a caso, di χάσμἀ ἀχανὲς:
E questa dei battenti (18) voragini immense fece, aprendosi, i bronzei (19) cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare,
Perché Parmenide parla di χάσμἀ ἀχανὲς (immense voragini) per descrivere i battenti che fanno voragini immense (vuoto infinito[xxxiv]) aprendo cardini bronzei nelle inverse cavità, dunque, a X che ruotano (facendo ruotare)?
Rileggiamo l’inizio del proemio parmenideo. Sforziamoci di realizzare che sia Parmenide che Platone parlano di un viaggio astrale e di nulla di terreno, ovvero materiale. Non è facile abituati, come siamo, a proiettare fuori dalla terra, la nostra visione materiale. Rileggiamo, dunque, il proemio.
(1) Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio può giungere, (2) mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero accompagnato sulla strada ricca di canti[xxxv] (3) della divinità[xxxvi], che porta < > l’uomo sapiente.[xxxvii] (4) Là ero portato, là infatti mi portavano le cavalle molto avvedute,[xxxviii] (5) trainando il carro[xxxix], e fanciulle[xl] mostravano la via. (6) L’asse del carro incandescente nei mozzi[xli] emetteva un suono acuto di flauto[xlii] (7) (in quanto era mosso da due rotanti (8) cerchi da ambo i lati), quando si affrettavano a scortar[mi] (9) le fanciulle Eliadi, abbandonata la dimora della Notte (10) verso la luce[xliii], togliendosi con le mani i veli dal capo[xliv]. (11) Là è la porta[xlv] dei sentieri di Notte e Giorno, [xlvi] (12) e la incornicia[no] un architrave e una soglia di pietra; (13) la porta, alta nell’etere[xlvii], è chiusa da grandi battenti, (14) di cui Dike[xlviii] che molto castiga tiene le chiavi dall’uso alterno.[xlix] (15) Placandola con parole compiacenti, le fanciulle (16) sapientemente la persuasero affinché per loro la barra del chiavistello (17) togliesse rapidamente dalla porta. E questa dei battenti (18) voragini immense fece, aprendosi, i bronzei (19) cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare, (20) applicati per mezzo di ferri e chiodi. Là, attraverso la porta, (21) diritto condussero le fanciulle lungo la via maestra carro e cavalli.
Nel testo “Il Viaggio astrale di Parmenide”[l] abbiamo dato questa rilettura ai fini della migliore comprensione.
I riti mi portavano fin dove potevo arrivare col mio desiderio e, grazie ai canti, mi guidavano alla Dea Venere (o Dike) che conduce l’uomo sapiente. Là mi portavano i saggi riti che traevano l’anima mentre fanciulle mi mostravano la via. L’asse del mondo, reso incandescente ai poli, emetteva un suono acuto di flauto: esso era mosso da ambo i lati dai due cerchi, delle stelle e dei pianeti (NB dell’uguale e del diverso); le figlie di Apollo mi scortavano verso il sorgere dell’alba e, andando verso la luce, si toglievano con le mani i veli dal capo. Giunsi così alla porta nell’etere, da cui partivano le vie del Giorno e della Notte (Cancro e Capricorno), circondata sotto dal firmamento e sopra da un architrave, nell’Empireo. La porta era chiusa da grandi battenti, di cui la dea della Giustizia tiene le chiavi del moto inverso dei pianeti. Placando la sua ira, le fanciulle la persuasero di aprire la porta. Aprendo i battenti e facendo, in moto retrogrado, ruotare i cardini di ferro delle sfere planetarie vidi il vuoto infinito. Le fanciulle mi condussero allora attraverso la porta, lungo la via maestra.
Ovvero il viaggio astrale si effettuava sull’asse del mondo mosso, non da ruote, ma dai due cerchi del diverso e dell’uguale verso la luce. Si giungeva così alla porta nell’etere, da cui partivano le porte del Cancro e del Capricorno. La porta dell’etere era chiusa da grandi battenti di cui la dea della Necessità cosmica teneva le chiavi del moto inverso dei pianeti. Per aprire i battenti bisognava fare ruotare i cardini di ferro delle sfere planetarie, in moto retrogrado. Ciò fatto ci si trovava di fronte al vuoto infinito di immense voragini (quel nero assoluto e senza stelle di cui parlano alcuni astronauti e che si vede dai filmati dei palloni sonda meteo, su cui vedi oltre). Parmenide con l’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς, così come Platone, con χάσματα, parlava delle enormi voragini che si vedono all’apertura della porta dell’etere (del prato). Quali sarebbero le Porte di Notte e Giorno (del Capricorno e del Cancro) nel mito di Er?
Le due voragini nella Terra e, di fronte a queste, le due nel Cielo che si intersecano esattamente al punto di incrocio della X.

(Immagine 4 - La X platonica, all'incrocio tra il cerchio dello stesso e quello del diverso)
Le due voragini sono il Cerchio del Diverso”, in orbita lungo l’eclittica con il moto irregolare dato dalla retrogradazione, che si interseca con il “Cerchio dello Stesso[li] ovverosia con quello del moto delle stelle. Là nel punto astrale di incrocio della X sta forse il punto eterico (cioè, un “non luogo”) del prato ove si ritrovano le anime per il giudizio. Dal punto di incrocio della X platonica partivano le due vie per la discesa dell’incarnazione e quella per l’ascesa dei defunti, cioè le Porte del Cancro e quella per il Capricorno. Espressione analoga usava anche Esiodo per definire l’abisso (χάσμα μέγ’) che si apre a chi dalla terra, attraversa le porte. Dicevamo che la X rappresenta il modo in cui l’Anima Mundi porta le idee alla manifestazione.[lii] Nella manifestazione universale il Circolo dello Stesso rappresenta l’Uno che, pur restando se stesso, si fa Due, creando così i presupposti per tutta la manifestazione dell’Essere; il circolo del Diverso, invece, rappresenta bene gli ulteriori effetti di questa manifestazione, e cioè la varietà di credenze, giudizi e sentimenti associati con gli stati inferiori dell’essere[liii]. Proclo commenta Platone parlando delle quattro aperture disposte come le quattro aste del X, lo stesso che il Demiurgo ha “impresso nel cuore dell’essenza delle anime quale lettera propria a ogni anima”.[liv]

(Immagine 5 - Anima Mundi: i due cerchio del diverso e dello stesso. All'incrocio dei due cerchi la X costituente le due voragini intersecanti il Prato del Giudizio - tratto da G. Donnay Le système asteonomique de platonextrait de la revue belge de philologie et d'histoire T. XXXVIII, 1960, N" 1)
IL PRATO DELL’ALDILA’, LUOGO O “NON-LUOGO” ETERICO DELLE ANIME? COS’E’ L’ETERE?
Per comprendere il mito di ER, occorre ritornare indietro a quanto già detto, in altri nostri lavori[lv], sul tema dell’etere. Come detto, le anime, si riuniscono in un prato, in una regione intermedia, al di sopra della superficie della terra. Là assistono al meraviglioso fenomeno cosmico delle Moire che girano le sfere astrali e da esse estraggono le sorti individuali. Anticipiamo che nel mito Platone ha voluto visivamente rappresentare la “zona” eterica con la parola “prato”. Quei prati erano gli stessi prati di asfodelo di Ade (eterici) di cui parlava Omero [lvi]. Così anche nel Fedro di Platone le anime contemplano le idee sulla pianura della verità descritta anche lì come un prato [lvii]. Nel papiro di Strasburgo, contenente passi di Empedocle, si legge:
“giunsi al luogo estremo / con urlo e grido lacerante / poiché avevo raggiunto il prato di Ate / ancora, intorno, la Terra”[lviii].
Secondo la testimonianza di Diodoro Siculo, Orfeo avrebbe poi preso l’immagine del prato dell’aldilà dalla tradizione egizia[lix]. Interessante, questo riferimento alla tradizione egizia che, come vedremo, era presente nel retaggio pitagorico poi trasfuso nel mito di Er. Riprendiamo, brevemente, alcuni concetti di etere. Tutti sono ugualmente condivisi, in epoca antica, in tutta la cultura classica. Il Cosmo di Ermete, così come emerge dai Frammenti di Stobeo, comprende una regione eterica che va dalla sfera delle stelle fisse fino alla Luna, e un’altra dalla Luna alla Terra; nella regione dell’etere soggiornano gli astri divini, nella regione sublunare gli esseri mortali. Secondo Ermete, dopo aver trascorso un certo tempo sulla Terra, le anime tornano alla regione dell’aria (iperurania, mediana o infima) alla quale appartengono:
“ciò che si estende dal più alto dei cieli fino alla Luna è spazio riservato agli Dei, agli astri e al resto della Provvidenza; quello che invece si estende a partire dalla Luna fino a noi […] è dimora delle anime[lx]”.
Nelle Memorie pitagoriche, ancora, si legge:
“L’Etere che circonda la Terra è immobile e malsano, e tutti gli esseri contenuti in esso sono mortali; in compenso l’Etere della regione somma è sempre in movimento, puro e salubre, tutti gli esseri che esso contiene sono immortali e dunque divini.[lxi]”
Dunque, si distingueva tra un etere attorno alla Terra, malsano e immobile, e un etere sopra la Luna abitato dagli Dei, puro e in movimento. Anche Parmenide parlava dell’etere. Nel fr. 10 del suo poema la dea dice a Parmenide che egli conoscerà la natura e l’origine di alcune entità celesti, ossia l’etere, tutti i segni nell’etere, il sole, la luna e il cielo:
“Conoscerai la natura eterea e tutti nell’etere
i segni, e della pura e lucente lampada [lxii]”.
Nel successivo frammento 11:
“(conoscerai) come la terra e il sole e la luna e l’etere comune e la celeste Via Lattea e l’Olimpo estremo e la calda forza degli astri furono spinti a nascere.[lxiii]”
Aezio poi ci riporta un altro suo frammento parmenideo
“stando intorno più in alto di tutti l’etere (o Empireo), sotto di esso è disposto quel corpo infuocato che abbiamo chiamato cielo (Aezio, II 7,1, iii)”.
Per Platone, l’Etere è la parte superiore, limpida e pura, dell’atmosfera; la regione dell’Etere, sottile, calda e secca, si trova al disopra di quella dell’aria, densa, umida e fredda, una specie di nebbia che costituisce la parte inferiore dell’atmosfera [lxiv]. Nell’Epinomide platonico sono nominate cinque sostanze: le prime due sono “il fuoco e l’acqua, terza nell’ordine l’aria, quarta la Terra e quinto l’Etere”. L’Etere è la sede dei demoni trasparenti che fanno da intermediari tra gli esseri umani e gli dèi visibili, ossia gli astri [lxv]. Nel Cratilo Platone ci dice dell’etere:
ὁ δὲ δὴ ἀὴρ ἆρά γε, ὦ Ἑρμόγενες, ὅτι αἴρει τὰ ἀπὸ τῆς γῆς‘ἀὴρ’ κέκληται;
ἢ ὅτι ἀεὶ ῥεῖ; ἢ ὅτι πνεῦμα ἐξ αὐτοῦ γίγνεται ῥέοντος; οἱ γὰρ ποιηταί που τὰ πνεύματα ‘ἀήτας’ καλοῦσιν:
ἴσως οὖν λέγει, ὥσπερ ἂν εἰ εἴποι πνευματόρρουν,ἀητόρρουν’ ὅθεν δὴ βούλεται αὐτὸν οὕτως εἰπεῖν, ὅτι ἐστὶν ἀήρ.
τὸν δὲ αἰθέρα τῇδέ πῃ ὑπολαμβάνω, ὅτι ἀεὶ θεῖ περὶ τὸν ἀέρα ῥέων ‘ἀειθεὴρ’ δικαίως ἂν καλοῖτο.
Ma aer (‘l’aere’) è stato chiamato così , o Ermogene, perché ‘solleva’, αἴρει,(61) le cose da terra? Oppure perché ‘scorre sempre’, ἀεὶ ῥεῖ? Oppure perché da esso, quando fluisce, sorge il vento? E infatti i poeti chiamano i venti ἀήτας.(62) E forse vuoi dire ἀητόρρουν (‘vento che scorre’) come se si dicesse πνευματόρρουν (‘soffio che scorre’). E dell’etere, aither, io la penso a questo modo, poiché ‘corre sempre’ (aei thei), fluendo intorno all’aere potrebbe essere chiamato giustamente ἀειθεὴρ..[lxvi]
Che poi il nome stesso del guerriero della Panfilia chiamato Er assomigli al finale di aeitheer (ἀειβεήρ) è forse una coincidenza? O, forse, un gioco nominale da parte di Platone? La seconda ipotesi ci suona verosimile.
Plutarco, sempre sull’etere, diceva:
“Vedi nelle altezze questo etere infinito le cui onde avvolgono la terra?(lxvii)”.
Così parlava dell’etere Ario Didimo:
“Il fuoco nell’etere, costituisce tutto il Mondo, di cui l’intera porzione superiore rappresenta la dimora [5] degli dèi, l’inferiore quella degli esseri effimeri (…) Tali sono dunque gli elementi nei quali si divide il Mondo considerato come un bell’ordine, mentre la parte che si muove in circolo attorno a esso è l’etere, dove sono posti gli astri – sia gli astri fissi che i pianeti [lxviii]”
Aristotele sosteneva che l’etere costituiva l’essenza del mondo celeste, distinguendolo così dalle quattro essenze (o elementi) di cui riteneva composto il mondo terrestre. Aristotele riteneva che l’etere fosse eterno, immutabile, senza peso e trasparente; proprio per l’eternità e staticità dell’etere, il cosmo era immutabile, in contrapposizione alla Terra, luogo di continuo cambiamento.[lxix] All’etere, infatti, egli attribuiva per natura il moto circolare, che entrando poi in contatto con gli altri quattro elementi giungeva a corrompersi diventando rettilineo [lxx]. Nel Trattato del Mondo lo Pseudo Aristotele così scriveva dell’etere[lxxi]:
“L’etere racchiude tutti i corpi divini e l’area in cui ognuno di essi si muove secondo il suo rango. Dopo, la natura eterea e divina, che obbedisce, come mostriamo, a un ordine fisso e che è peraltro immutabile, inalterabile e impassibile“.
Porfirio poi asseriva che nella regione eterea l’anima acquisisce un corpo etereo quasi immateriale, passando dal Sole, un corpo solare, passando dalla Luna, un corpo Lunare, e infine, passando nella “zona” sublunare, un corpo terroso (ostreodes soma) [lxxii]. Ovvero, secondo Porfirio, le anime prima di natura spirituale diventano eteree passando dalle “zone” dell’etere. E Macrobio commenta sullo stesso tema:
“Tutti gli esseri compresi fra la sommità del Cielo e la Luna sono sacri, incorruttibili e divini, perché in essi vi è l’Etere, che è sempre immutabile e mai soggetto al flusso irregolare del cambiamento[lxxiii]. Sotto la Luna, tutto, a cominciare dall’aria, subisce delle trasmutazioni e siccome la Luna è il confine tra l’Etere e l’aria, è similmente il confine tra il divino e l’effimero. (…) L’origine delle anime è celeste ma, per una legge che ne fa ospiti di passaggio, si trovano quaggiù in esilio. La nostra regione, quindi, non ha in sé niente di divino se non ciò che riceve, e lo riceve solamente per renderlo [lxxiv]”.
E ancora ricordiamo che Macrobio ebbe a scrivere:
“[…] e non a torto si credette che le anime che da lassù scendono in Terra muoiano, mentre quelle che da lassù risalgono verso le regioni superne ritornino in vita. Difatti nello spazio sublunare comincia la zona abitata dagli esseri perituri: qui le anime cominciano a essere soggette alla misura del tempo e al numero dei giorni[lxxv]”.
Abbiamo fatto cenno alla consapevolezza antica del fatto che, mentre, da una parte, l’Etere tra la Terra e la Luna è immobile e malsano, e tutti gli esseri contenuti in esso sono mortali, dall’altra parte, l’Etere sopra la Luna è, invece, sempre in movimento, puro e salubre, e, dunque, tutti gli esseri che esso contiene sono immortali e dunque divini. Anche nel Kamaloka indiano o nel Purgatorio cristiano,[lxxvi] nella “zona” tra la Terra e la Luna, si trovava il non-luogo di purificazione delle anime impure. Lì l’etere era malsano immobile. Mentre nella “zona” ultralunare e nelle superiori sfere astrali stavano le anime post-purgazione: quello era il cosiddetto Devachan. Lì stavano le anime purificate, in un etere puro e sempre in movimento, all’inizio del loro percorso astrale post-mortem. Simili erano pure le concezioni teosofiche di Helena Petrovna Blavatsky:
“The Athenians also heretofore called the deceased sacred to Demeter. As for the other death, it is in the moon or region of Persephone.” Here you have our doctrine, which shows man a septenary during life; a quintile just after death, in Kamaloka; and a threefold Ego, Spirit-Soul, and consciousness in Devachan.
It is ordained by Fate (Fatum or Karma) that every soul, whether with or without understanding (mind), when gone out of the body, should wander for a time, though not all for the same, in the region lying between the earth and moon (Kamaloka). For those that have been unjust and dissolute suffer then the punishment due to their offences; but the good and virtuous are there detained till they are purified, and have, by expiation, purged out of them all the infections they might have contracted from the contagion of the body, as if from foul health, living in the mildest part of the air, called the Meadows of Hades, where they must remain for a certain prefixed and appointed time.[lxxvii]”.
Riassumendo, le anime che arrivavano al prato non erano in un luogo materiale ma in un luogo eterico che non era, dunque, costituito da materia. Quando, dunque, Platone parla di “prati”, parla di prati eterici. Dato che le anime, composte di etere, erano in un luogo costituito di etere, ci sembra ovvio che non essendoci materia non ci possa essere neanche separazione tra oggetti. Dunque, non ci può essere alcuno spazio, bensì solo tempo, per di più accelerato rispetto alla Terra, per come, tra i filosofi moderni, tante volte ha ripetuto lo Steiner:
“Quindi, poiché un anno spirituale equivale a 30 anni terreni, in un anno spirituale l’uomo sperimenta all’incirca la stessa porzione di mondo che in 30 anni fisici. Anche allora non potrà, finché non avrà trascorso un anno spirituale, cioè 30 anni terreni. Si potrebbe realizzare infinitamente di più se un giorno questo altruismo prendesse un po’ piede nel mondo, così che coloro che sarebbero vissuti in seguito collegassero il proprio lavoro con quello dei defunti e cercassero consapevolmente di mantenere la continuità nell’evoluzione. Stando così le cose, non vi sorprenderà più che un anno di tempo spirituale rappresenti 30 anni di tempo fisico. Perché nello spirito siamo nella circonferenza e guardiamo verso il centro? è molto importante ricordarlo [lxxviii]”.
Gli antichi parlavano, infatti, di etere come movimento dispiegato nel tempo: Platone, ricordiamo, diceva che esso “correndo sempre e fluendo intorno all’aere potrebbe essere chiamato giustamente ἀειθεὴρ”. Dunque, per dirla come Rudolf Steiner, l’etere delle anime è il non luogo non spaziale dell’eterno movimento temporale. In tal senso il filosofo austriaco si è fatto portavoce e latore del pensiero antico, seppure in termini più moderni. Sentiamo, dunque, lo Steiner in uno dei numerosissimi riferimenti da lui fatti all’etere:
“La verità è che per giungere a una reale comprensione del mondo, dobbiamo concepire la materia pesante e ponderabile come se si esaurisse nell’etere; poiché dobbiamo comprendere chiaramente che questo etere è essenzialmente una cosa molto diversa da quella sostanza di cui parliamo come riempiente lo spazio. Quando parliamo di quest’ultima sostanza, pensiamo allo spazio come riempito di materia. Ma questo non possiamo farlo quando parliamo di etere, perché allora dobbiamo concepire lo spazio come vuoto di materia. Inoltre, quando parliamo dell’astrale, non dobbiamo pensare alla materia fisica tridimensionale che si estende in tre dimensioni nello spazio, né dobbiamo pensare all’etere assorbente, ma a un terzo fattore, che costituisce l’adattamento o la connessione tra gli altri due [lxxix]”.
In tale “non luogo” eterico si svolge la scena del mito. Dunque, quando Proclo parla del “luogo intermedio” (μεταξὺ γῆς καὶ οὐρανοῦ) tra cielo e terra, lo fa nella consapevolezza che, come in tutto il pensiero antico, esso fosse l’area dell’etere per come ben noto in epoca classica. Dunque, Proclo intendeva un’area senza spazio, eterica [lxxx]. Vano e contro il concorde pensiero antico, dunque, risulta il tentativo moderno di cercare una “topografia dell’aldilà”. Né esisteva un alto o un basso, né una destra o una sinistra. Quasi patetico, poi, il tentativo di argomentare che il fenomeno delle Moire
“si stia dispiegando sopra la testa delle anime, anche se sembra più difficile immaginare che le Sirene montino l’emisfero superiore anziché quello inferiore”[lxxxi].
Ripetiamo: non esisteva in quella dimensione né un sopra né un sotto, secondo gli antichi. Né si può collocare la scena ultraterrena in un etere al centro della Terra o sottoterra o in un punto intermedio tra cielo e terra, come erroneamente fatto da tanti studiosi moderni, se non tradendo la generale consapevolezza antica. L’etere, come lo spirito, non conosce lo spazio. Così come il mito di ER non conosce il tempo, e ancora persiste nelle nostre anime.
Note:
[i] Sia consentito rimandare al testo di Aurelio Bruno, Il Pantheon del Cielo: culture e riti per l’ascesa stellare nel Pantheon “platonico” di Roma, Isbn 979-8844154249, Avi 2022
[ii] Aurelio Bruno, Il mito di ER, dal cosmo all’immortalità, ISBN-13 -979-8280657724 AVI, 2025, 1° edizione
[iii] Si veda lo studio di Griet Schils, Plato’s Myth of Er : The Light and the Spindle su L’Antiquité Classique, T. 62 (1993), pp. 101-114, L’Antiquité Classique Stable URL: http://www.jstor.org/stable/41657658
[iv] Sempre sulla tesi di Proclo vedi in Plat. Remp. II 133.4-8; 135.12-14; 136.8-10; 157.17-19; 189.22-190.27; 201.17-29; 346.25-27 Kroll
[v] vedi The greek commentaries on Plato’s Phaedo a cura di L G Westerink, Leendert Gerrit Westbury : The Prometheus Trust; 2009,
II 100.111
[vi] vedi Plat. Gorg. 259.9-23 Westerink
[vii] Falbo scrive: “A differenza di quanto ritiene Proclo nei Commenti alla Repubblica, in Platone l’etere infatti non è un luogo tra cielo e Terra bensì il puro cielo, nel quale è immaginata tra l’altro anche la ‘pura Terra’, ἡ γῆ αὐτή, di cui parla il mito del Fedone (109c7-d2).” Da tale dichiarazione si evince che Falbo abbia sorvolato sul fatto che per gli antichi, come già detto, l’etere era diviso in due zone, quella sopra la Luna, pura, e quella tra la Luna e la Terra, malsana. D’altronde, non si evince su cosa Falbo abbia fondato tale affermazione né lo studioso reca citazioni di supporto. Vedi Falbo, op.cit., pag. 188
[viii] L’ipotesi è del Boeckh e ne parla J. Adam, The Republic of Plato, edited with Critical Notes, Commentary and Appendices, II (Cambridge-London-New York, 1963) a pagina 470.
[ix] Ipotesi articolata in J.Adam, The Republic of Plato, edited with Critical Notes, Commentary and Appendices, II (Cambridge-London-New York, 1963). Numenio di Apamea (fr. 35 des Places = Procl. in Plat. Remp. II 128.26-130.14 Kroll) proponeva il τόπος δαιμόνιος come centro dell’intero cosmo e della Terra, Numenio sosteneva che il τόπος δαιμόνιος si trovasse allo stesso tempo in mezzo al cielo e in mezzo alla Terra: τὸ κέντρον εἶναί φησιν τοῦτον τοῦ τε κόσμου παντὸς καὶ τῆς γῆς, ὡς μεταξὺ μὲν ὂν τοῦ οὐρανοῦ, μεταξὺ δὲ καὶ τῆς γῆς. Per Numenio il τόπος δαιμόνιος è un luogo bipartito tra Terra e cielo e non a metà tra queste due zone del cosmo. L’interpretazione proposta da Numenio non trova alcun riscontro né nel mito di Er né nel resto della produzione di Platone. Festugière, in Proclus, 72 n.2, dice che la Terra di cui parla Numenio non coincide con il nostro pianeta bensì con una «“terre” mythique qui se trouve elle-même au Ciel». Stessa tesi per quella offerta da Paterio, sulla base della testimonianza di Proclo (in Plat. Remp. II 134.7-23). “Paterio mostrava senza dubbio una maggiore aderenza alla cosmologia di Platone. Questo perché nella geografia dell’aldilà del Fedone l’etere è la dimora destinata alle anime di quanti in vita si sono distinti per una condotta di vita saggia, anche se non completamente purificata dalla filosofia: l’etere non può dunque in alcun modo coincidere con il luogo del giudizio di tutte le anime. E in effetti – come confermano anche il mito del Gorgia e il mito del Fedone – in Platone il luogo del giudizio nell’oltretomba non corrisponde mai a nessuna delle differenti destinazioni delle anime, dalle quali è anzi geograficamente ben separato. In base alla testimonianza di Proclo e alla generale escatologia proposta da Platone possiamo concludere che per Paterio e per i suoi allievi il τόπος δαιμόνιος non poteva che essere immaginato sulla superficie della Terra, la sola parte del cosmo non annoverata tra le varie destinazioni oltremondane”, cfr. Falbo, op.cit.pag. 190
[x] Griet Schils, Plato’s Myth of Er : The Light and the Spindle su L’Antiquité Classique, T. 62 (1993), pp. 101-114, L’Antiquité Classique Stable URL: http://www.jstor.org/stable/41657658
[xi] Vedi Th.L. Heath, Aristarchus of Samos, the Ancient Copernicus. A History of Greek Astronomy, Oxford, 1913, p. 151; vedi anche Proclo, 188, 6 – 190, 27
[xii] Contraria la visione di Boeckh che ha difeso la prima ipotesi: ne parla J. Adam, The Republic of Plato, edited with Critical Notes, Commentary and Appendices, II (Cambridge-London-New York, 1963) a pagina 470
[xiii] Cfr., Schils, ibidem, pag. 105
[xiv] Le misure nell’antichità erano basate su misure celesti. Come disse Aristotele (Fisica, IV, 14, 223 B 18 sgg):6 «Il moto circolare uniforme è la misura per eccellenza, perché il suo numero è il meglio conosciuto» cfr.,De Santillana, G.; von Dechend, H. Sirio, Adelphi. 2020, pag. 83
[xv] G. De Santillana H.V. Dechend “Il mulino di Amleto”, Adelphi, 1983, pagg. 141, 172, 178, 275, etc. Ancora sul tema il fondamentale “Der Baum des Lebens” di U. Holmberg, Helsinki, 1923, pagg.33 ss.
[xvi] G. De Santillana H.V. Dechend, ibidem, pagg. 49 e ss
[xvii] G. De Santillana H.V. Dechend, ibidem, pagg. 130,132, 134-42, 145, 147, etc., riferimento tratto dal Kalevala poema epico nazionale finlandese.
[xviii] Mondolfo, Rodolfo, “L’infinito nel pensiero dell’antichità classica”, Bompiani 2012, pag. 414 nota 2
[xix] De caelo, 293 a, 18 sgg.; b, 18 sgg.; 296 a, 28; b,2
[xx] Cfr. De caelo, 293 b, 3 sgg.; 296 a, 26 sgg. e 29; 296 b,
2 sgg. Cfr. anche: Harold Cherniss, Aristotle’s Criticism of Plato and the Academy, 1962, Publisher Russell and Russell Inc p. 546.
[xxi] Platone, Timeo, 40 c
[xxii] G. Lozza (a cura di), Platone. La Repubblica, Mondadori, Milano 2012.n. 56, p. 813.
[xxiii] Platone, Leggi, 945 c – d.
[xxiv] Cfr. Timeo, 34 b: “[…] avendo poi posto un’anima al suo centro, la distese attraverso tutto il corpo e ancora, dall’esterno, lo avvolse con essa e costituì così un cielo dalla forma circolare che si muove circolarmente, unico, solo, solitario, capace, per sua virtù, di stare con se stesso senza avere bisogno di niente altro, sufficientemente conoscitore e amante di se stesso. Operando in questo modo, egli lo generò come un dio felice”.
[xxv] Nel X libro del Repubblica
[xxvi] Anche i poeti erano considerati “giusti” e, dunque, destinati ad altra vita, all’epoca di Ottaviano Augusto. Ovidio, scrisse: Se hanno qualche cosa di vero i presagi dei vati, per quanto interamente io muoia non sarò tuo, terra (Ovidio, Tristia, IV, 10, 129-30) Non ero terra, tuus: il che non può interpretarsi della gloria immortale dei carmi, bensì solo dello spirito suo che sia volato al Cielo. Stesso significato è evidente anche nel passo finale delle Metamorfosi. Quando vorrà, quel giorno che non ha altro potere se non sul corpo mio, porrà termine all’incerto spazio della mia vita mortale, ma con la parte migliore di me stesso sarò portato perennemente sopra gli alti astri e la mia fama non perirà mai; fin dove la romana potenza stende il suo dominio sulla terra, io sarò letto dal popolo; e per tutti i secoli, se han qualche cosa di vero i presagi dei vati, io vivrò glorioso (Ovidio, “Metamorfosi”, XV, 873-9). Sempre, Ovidio nella famosa elegia in morte di Tibullo immagina il convegno dei maggiori poeti del suo tempo negli Elisii (59-66). Se di noi, egli dice, rimane qualcosa oltre il nome e l’ombra, nell’Elisia valle vivrà Tibullo. E tu, o dotto Catullo, cinto di edera le giovenili tempie, vienigli incontro, insieme col tuo Calvo. E tu pure, o Gallo, se falsa è l’accusa del tuo improbo amico, tu pure vieni, o prodigo del tuo sangue e della tua anima. Compagno a costoro è l’ombra tua, o colto Tibullo; se hanno ancora qualche vita le ombre, tu hai aumentato il numero dei pii (Ovidio, “Amores”, II, 9). Col porre Tibullo nella valle Elisia, il poeta seguiva il voto espresso dallo stesso suo amico defunto, che nella terza elegia del libro I aveva a sé augurato (57-58): Sed me, quod facilis tenero sum semper Amori. Ipsa Venus campos ducit in Elysios (Tibullo, Libro 1, Corpus Tibullianum, Par. 51-58,81-84).
[xxvii] Platone, “Repubblica”, X, 614B-C, in “Platone, Tutti gli scritti”, op. cit., pp. 1322- 1323: “Disse che la sua anima, dopo essere uscita dal corpo, si mise in viaggio assieme a molte altre, finché giunsero a un luogo meraviglioso (24) nel quale si aprivano due voragini contigue nel terreno e altre due, corrispondenti alle prime, in alto nel Cielo. In mezzo ad esse stavano seduti dei giudici, i quali, dopo aver pronunciato la loro sentenza, ordinavano ai giusti di prendere la strada a destra che saliva verso il Cielo, con un contrassegno della sentenza attaccato sul petto, agli ingiusti di prendere la strada a sinistra che scendeva verso il basso, anch’essi con un contrassegno sulla schiena dove erano indicate tutte le colpe che avevano commesso.(25) Giunto il suo turno, i giudici dissero a Er che avrebbe dovuto riferire agli uomini ciò che accadeva laggiù e gli ordinarono di ascoltare e osservare ogni cosa di quel luogo. Così vide le anime che, dopo essere state giudicate, partivano verso una delle due voragini del Cielo o della terra; dall’altra voragine della terra risalivano anime piene di lordura e di polvere, dall’altra posta nel Cielo scendevano anime pure. Quelle che via via arrivavano sembravano reduci come da un lungo viaggio; liete di essere giunte a quel prato, vi si accampavano come in un’adunanza festiva. Le anime che si conoscevano si abbracciavano e quelle provenienti dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, e viceversa. Nello scambiarsi i racconti delle proprie vicende le une gemevano e piangevano, al ricordo di quante e quali sofferenze avevano patito e veduto durante il viaggio sottoterra (un viaggio di mille anni), (26) mentre quelle provenienti dal Cielo riferivano le visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza che avevano contemplato”
[xxviii] Con una (perdonabilissima) confusione tra il piano celeste e quello della materia terrestre, il pur attentissimo studioso Falbo, scrive: “I due χάσματα nel τόπος δαιμόνιος, i quali devono essere considerati vere proprie voragini, più che semplici fenditure nel terreno, non possono inoltre non richiamare i χάσματα all’interno della Terra (NB all’interno della Terra, appunto) descritti ancora nel mito del Fedone, tra i quali il più grande e il più importante è senza dubbio il Tartaro. In entrambi i miti escatologici con l’immagine dei χάσματα della Terra Platone intende richiamarsi ad alcuni celebri passi – anch’essi relativi all’oltretomba – della tradizione poetica precedente.” Ripetiamo, se vediamo tutto come materia, lo si deve a centinaia di anni di propaganda materialista proiettata fuori dalla Terra.
[xxix] Le misure nell’antichità erano basate su misure celesti. Come disse Aristotele (Fisica, IV, 14, 223 B 18 sgg):6 «Il moto circolare uniforme è la misura per eccellenza, perché il suo numero è il meglio conosciuto» cfr.,De Santillana, G.; von Dechend, H. Sirio, Adelphi. 2020, pag. 83
[xxx] Sempre sul tema G. Latura in “Planetary harmonies and celestial symmetries” (studio su internet).
[xxxi] J.Opsopaus “A summary of Pythagorean Theology”,2002-4 Epitome Theologiae Pythagoricae a Ioanne Opsopoeo electa composita scripta”, internet
[xxxii] Sul mito di ER Cumont, in Lux Perpetua, Paris, 1949, pag. 147 e 150-156, scrisse che i Magi iraniani dell’Asia Minore e i Caldei avevano trasmesso la magia orientale ai Pitagorici di Sicilia. Giacchè Platone era stato in contatto con Pitagorici e Caldei il mito di ER fu il frutto di tali contatti.
[xxxiii] Sul sito del mito di Er vedi J.P. Culianu “Psychanodia 1”, op.cit, pag. 41
[xxxiv] Così traduce Tonelli in Parmenide Dell’Origine, a cura di A.Tonelli, Feltrinelli, 2023
[xxxv] Il termine πολύφημον (polyphēmon) indica l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci e informazioni: si tratta del valore più antico, omerico. Si veda D. Zucchello (a cura di) Parmenide, Sulla natura Introduzione, traduzione, note e commento, Limina Mentis Esprit, 2015. Nello stesso senso R.Baldini, L’estasi e l’enigma nel poema di Parmenide. Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». Tonelli traduce “sulla via della Dea, che dice molte cose”.
La divinità (daimōn), secondo noi, si riferisce al coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9). L’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro (cosmico) il poeta starebbe viaggiando (W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 147). Tonelli ipotizza possa trattarsi della Grande Madre. Noi crediamo che si trattasse, invece, della dea Venere che poi ritroveremo sempre non menzionata poco più avanti nella parte sulla riproduzione umana. C’è inoltre da considerare che, mentre Dike e Themis vengono regolarmente menzionate, Venere non lo è mai.
[xxxvii] Uomo sapiente, il sophos, ovvero l’iniziato.
[xxxviii] Cavalle molto avvedute, non possono non essere le pratiche iniziatiche di purificazione. Le purificazioni con cavalli a Roma, le Equirria, si tenevano il 27 febbraio con riti di purificazione dell’esercito e corse di cavalli nel Campo Marzio.
[xxxix] Helios, Apollo, conduceva il carro del cosmo
[xl] Le Eliadi, le figlie di Helios, Apollo. È così difficile collegare le Eliadi figlie di Apollo con l’attribuzione del titolo di Sacerdote di Apollo Oulios?
[xli] “Gira tutto intorno come il mozzo del carro”, recita un frammento di Empedocle citato da Plutarco.[xli] [xli] ἅρματος ὡς πέρι χνοίη ἑλίσσεται ἥ τε παρ᾽ ἄκρην… 31 B 46 [189 K., 155 St.]. Plutarch. de fac. in orbe lun. 9 p. 925 B.
[xlii] L’asse del mondo girava dentro i mozzi causa il moto dei due cerchi del Diverso e dell’Uguale attorno al cosmo. Va detto che il termine σύριγγος è da tradursi come siringa, il flauto di Pan costituito da 7 canne più l’ottava, esattamente come le sfere del cosmo (corone, per dirla come Parmenide)
[xliii] L’espressione εἰς φάος (eis phaos) può riferirsi a πέμπειν (pempein v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero a προλιποῦσαι (prolipousai v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce» (vedi Zucchello, op.cit.)
[xliv] Secondo noi, gesto cerimoniale nel rito di purificazione verso la luce
[xlv] Si riferisce alla mitica X platonica, ovvero alle porte delle vie per la discesa delle anime alla terra e della salita delle anime ai cieli. Si consenta rinviare a A.Bruno, Psycanodia, Il Viaggio Dell’anima Nella Cultura Classica, AVI Edizioni, Codice ISBN: 9798371634191, 2022. Allo stesso modo Coxon seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere eis genesin (alla generazione, incarnazione) e ad ascendere eis theous (verso le divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto (si veda A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986).
[xlvi] Le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V, 754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike – in Esiodo – è proprio una di loro (Mourelatos, A.P.D. The route of Parmenides, Pub.,2008 p. 15).
[xlvii] L’aggettivo αἰθέριαι (aitheriai) si riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa cui aderiamo (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo, nel firmamento, da firmus, duro. Di qui il riferimento alla soglia di pietra: prima dell’empireo divino bisognava passare dal durissimo firmamento. Vedi la conformazione del Paradiso in Dante, piuttosto che la conformazione del Cosmo degli antichi in A.Bruno, Κόσμοσ, Il Mondo Degli Antichi, , AVI Edizioni, ISBN 9798371859815, 2022, pag. 20 e ss.; ove si suggerisce che nell’incrocio di pietra ed etere sia la porta e il punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151).
[xlviii] Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: le Ore (Iliade V.749; VIII.393) custodivano le porte del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del Sole.
[xlix] I Ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ’ ἐπὶ θυμὸς ἱκάνοι,
πέμπον, ἐπεί μ’ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι
δαίμονος, ἣ κατὰ πάντ’ ἄστη φέρει εἰδότα φῶτα·
τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ’ ὁδὸν ἡγεμόνευον.
Ἄξων δ’ ἐν χνοίῃσιν ἵει σύριγγος ἀυτήν
αἰθόμενος – δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν
κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν
Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Νυκτός,
[10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων ἄπο χερσὶ καλύπτρας.
Ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων,
καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·
αὐταὶ δ’ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις·
τῶν δὲ Δίκη πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς.
Crediamo che il riferimento all’uso alterno delle chiavi debba rivolgersi al moto retrogrado dei pianeti e, dunque, all’inversione della direzione di apertura delle porte.
[l] Aurelio Bruno, Il viaggio astrale di Parmenide, AVI, 2024, Isbn 979-8320284514
[li] Le misure nell’antichità erano basate su misure celesti. Come disse Aristotele (Fisica, IV, 14, 223 B 18 sgg):6 «Il moto circolare uniforme è la misura per eccellenza, perché il suo numero è il meglio conosciuto» cfr.,De Santillana, G.; von Dechend, H. Sirio, Adelphi. 2020, pag. 83
[lii] J. Opsopaus “A summary of Pythagorean Theology”,2002-4 Epitome Theologiae Pythagoricae a Ioanne Opsopoeo electa composita scripta”, internet
[liii] G. Albano, “Magia e teurgia astrologica, culti astrali e pratiche magico-teurgiche”, Youcan print, 2015, pag. 53
[liv] Platone, “Timeo”, op.cit. 36B-C Proclus, Commentaire sur la République, vol. III, 143, 23-24, op. cit., p. 89.
[lv] Aurelio Bruno, Il Pantheon del Cielo: culture e riti per l’ascesa stellare nel Pantheon “platonico” di Roma, Isbn 979-8844154249, Avi 2022; Aurelio Bruno, Κόσμοσ, Il Mondo Degli Antichi, , AVI Edizioni, ISBN 9798371859815, 2022; Aurelio Bruno, Il viaggio astrale di Parmenide, AVI, 2024, Isbn 979-8320284514; Aurelio Bruno, Il mito di ER, dal cosmo all’immortalità, ISBN-13 -979-8280657724 AVI, 2025, 1° edizione
[lvi] Secondo Omero, le ombre dei trapassati si aggirano nell’Ade su prati di asfodelo. Nel libro XI dell’Odissea, in cui Ulisse evoca gli spiriti dei defunti, si vede l’aldilà eterico. Si ha un primo accenno quando si allontana Achille:
«Dissi; e d’Achille alle veloci piante
per li prati d’asfodelo vestiti
l’alma da me sen giva a lunghi passi,
lieta, che udì del figliuol suo la lode.»
(Omero, Odissea, libro XI, vv. 674-677, traduzione di Ippolito Pindemonte)
e un secondo quando appare Orione:
«Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,
che uccise un dì sovra i boscosi monti,
or gli spettri seguia de’ prati Inferni
per l’asfodelo in caccia; e maneggiava
perpetua mazza d’infrangibil rame.»
(Omero, Odissea, libro XI, vv. 716-720, traduzione di Ippolito Pindemonte)
Nel libro XXIV, le anime dei morti giungono a prati di asfodelo immortale:
«[…] indi ai vestiti
d’asfodelo immortale Inferni prati
giunser, dove soggiorno han degli estinti
le aeree forme, e i simulacri ignudi.»
(Omero, Odissea, libro XXIV, vv. 17-20, traduzione di Ippolito Pindemonte)
[lvii] Platone, Fedro, 248b
[lviii] Empedocle, Papiro di Strasburgo, gr.Inv.1665-1666 d, vv.1-19, in A. Tonelli, “Frammenti e testimonianze”, Bompiani, pag.145
[lix] Cfr.,Francesco Diez de Velasco et Miguel Angel Molinero Polo, «Hellenoaegyptiaca Influences égyptiennes dans l’imaginaire grec de la mort. Quelques exemples d’un emprunt supposé (Diodore, I, 92, 1-4 ; I, 96, 4-8) https://doi.org/10.4000/kernos.1097, 1994
[lx] E. Trismegisto “Frammenti estratti da Stobeo”, XXV, 9, op. cit., pp. 1150-1151 “Corpus Hermeticum”, a cura di I. Ramelli; 2000, Bompiani.
[lxi] “Memorie pitagoriche citate da Alessandro Polistore”, in Diogene Laerzio, VIII, 27, I pitagorici, ed. A. Maddalena, Bari 1954, p. 250. Abbiamo citato prima un passaggio dello Pseudo Aristotele sull’etere. Lo riportiamo in nota: (…) Alla sostanza del cielo e degli astri diamo il nome di etere, non, come alcuni vogliono, perché essendo ignea essa arde (queste persone si ingannano sulla sua natura, infinitamente lontana da quella del fuoco), ma perché “corre sempre””, girando in cerchio: è un elemento differente dagli altri quattro, indistruttibile e divino. (…)
[lxii] εἴσηι δ’ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ’ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ’ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσηι περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ oὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν [μὲν γὰρ] ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ(α) ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ’ ἔχειν ἄστρων. (Clem. Alex., strom. V 138)
[lxiii] πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ’ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ’ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι. (Simplic. de cael. 559, 20)
[lxiv] Plato, “Fedone” 109B-C; “Cratilo”, 410B-C
[lxv] “Epinomide”, 981 C, in Platone, “Tutti gli scritti”, op. cit., p. 1777 – 1780
[lxvi] cfr., Platone, Cratilo, 410B;
[lxvii] Plutarco De exilio, Tutti i moralia, a cura di E.Lelli e G. Pisani, Bompiani 2017 601 in http://www.poesialatina.it/ns/ Greek/ testi/Plutarchus/De_exilio_(599a-607f).html. Si veda J.Bidez in La Cité du Monde et la Cité du Soleil chez le Stoiciens, Paris 1932
[lxviii] Vedi A.J. Festugiere, nel La Rivelazione di Ermete Trismegisto, il Dio Cosmico, a cura di M.Neri, Mimesis, Vol.2, 2020, pag. 1115 e Diels, Dox., p. 76, a proposito dell’Epitome di Ario Didimo
[lxix] Aristotele, De caelo, libro I, capp. 1-12
[lxx] Aristotele, De caelo, I, 2, 268b, 11-270 a 12
[lxxi] A-J. Festugière, ne “La rivelazione di Ermete Trismegisto, Il Dio Cosmico”, a cura di M.Neri, Vol.2, Mimesis, 2019, pag. 1077 e ss., riporta il testo del Trattato “Del mondo” (perì kosmou) per come tradotto da W.L. Lorimer, Parigi 1933.
[lxxii] Porphyre, Sentences sur les intelligibles, XXIX, 19, 4-13, ed. L. Brisson, Paris 2005.
[lxxiii] Nello stesso senso Cicerone, “Il sogno di Scipione”, VI, 17, 17 “Supra lunam, sunt aeterna omnia”
[lxxiv] Macrobio, “Commento al Sogno…”, I, 21, 33-34, op. cit., p. 423.
[lxxv] Macrobio, “Commento al Sogno di Scipione”, I, 11, 6, a cura di M.Neri, Milano 2007, p. 329.
[lxxvi] Dante, però, lo descrive come una montagna altissima che si erge su un’isola al centro dell’emisfero australe totalmente invaso dalle acque, agli antipodi di Gerusalemme che si trova al centro dell’emisfero boreale
[lxxvii] H. P. Blavatsky’s, “The Key to Theosophy”: VI. Theosophical Teachings as to Nature and Man, 1889
[lxxviii] Rudolf Steiner, The Influence of the Dead on the Life of Man on Earth GA 168. 3 December 1916, Zurich
[lxxix] Rudolf Steiner, 73a. Discipline scientifiche e antroposofia: l’immagine del mondo della scienza moderna, 27 marzo 1920 Dornach
[lxxx] Nello stesso senso F.Calabi, in Il mito di Er: le fonti, a pag. 283 del testo La Repubblica Traduzione e commento a cura di Mario Vegetti Vol. VII Libro X, 2007, Bibliopolis
[lxxxi] Cfr., Schils, ibidem, pag. 113.
(continua…)
Aurelio Bruno
