
Il tricolore italiano come simbolo metastorico – 1^ parte – Piervittorio Formichetti
La storia ufficiale della bandiera nazionale italiana, caratterizzata dalla triade cromatica verde-bianco-rosso, comincia alla fine del secolo XVIII, quando il 7 gennaio 1797, a Reggio Emilia, fu adottata dal governo della Repubblica Cispadana, uno dei primi Stati sovrani d’Italia costituitisi sulla scia della Rivoluzione francese. In realtà, già nel fatidico anno 1789 a Genova i manifestanti favorevoli alla democrazia, obiettivo propugnato dalla confinante Francia rivoluzionaria, avevano applicato coccarde di questi colori sui propri vestiti, tanto che i giornali della Repubblica di Genova affermarono spesso che il tricolore verde-bianco-rosso sarebbe stato identico a quello dei francesi. Inconsapevolmente, in questo errore c’era una parte di verità, perché in origine anche il distintivo dei rivoluzionari d’oltralpe avrebbe dovuto essere verde: il 12 luglio 1789, due giorni prima del famoso assalto alla prigione parigina della Bastiglia, il giornalista rivoluzionario Camille Desmoulins, in un acceso discorso alla popolazione propose di scegliere il verde, simbolo di speranza, oppure il blu, già utilizzato una dozzina d’anni prima durante la Rivoluzione americana come simbolo di libertà e democrazia; il popolo di Parigi preferì con entusiasmo il verde, così Desmoulins raccolse dal terreno una foglia di questo colore e l’applicò al proprio cappello. Ma il verde della rivoluzione francese durò meno di un giorno: fu sostituito dal blu e dal rosso, perché il verde era anche il colore araldico del fratello del re Luigi XVI, Conte d’Artois e futuro re Carlo X, quindi un odiato «reazionario»; soltanto in seguito, all’abbinamento blu-rosso si aggiunse il bianco, colore della famiglia dei Borbone, ma anche, come si vedrà, associato da molto tempo alla sovranità del popolo.
Poche settimane dopo, nell’agosto 1789, anche in Italia comparvero coccarde composte con foglie verdi staccate dagli alberi e appuntate sui vestiti, soprattutto nello Stato Pontificio; in seguito furono realizzate coccarde di stoffa verde, sempre ispirate alle foglie degli alberi, alle quali si aggiunsero il bianco e il rosso per affermare la vicinanza ideale con i rivoluzionari francesi. In Italia i filo-giacobini, l’ala più radicale dei rivoluzionari – i giacobini francesi eliminarono decine di migliaia di veri e presunti «reazionari» nei pochissimi anni del «Terrore» [1] – in un primo momento avevano preferito l’azzurro o il blu già presente sulla bandiera francese, ma accettarono poi il verde, poiché richiamava la vegetazione e la natura come fonte dei diritti naturali, e l’ideale dell’uguaglianza originaria fra gli esseri umani. Questa scelta risentì probabilmente anche di un antefatto conosciuto da alcuni italiani, almeno nel nord della Penisola: la combinazione verde-bianco-rosso compariva nel 1782 sull’uniforme della Guardia Civica di Milano (se non addirittura già su quella della Milizia Urbana nel 1633, durante il dominio spagnolo [2]), che era un abito verde con mostrine bianche e rosse; i milanesi soprannominavano questi ufficiali remolazzìtt, «piccoli rapanelli», perché i loro colori facevano pensare al noto ortaggio. Nel corso del Risorgimento fu però un’altra pianta, il corbezzolo, ad essere vista come un corrispettivo vegetale del tricolore italiano per la compresenza delle foglie verdi, dei fiori bianchi e delle bacche rosse, e quindi considerata l’arbusto simbolo della nostra patria.
Oltre a queste corrispondenze botaniche, nella mente di alcuni italiani, probabilmente soprattutto fra la minoranza istruita che poteva permettersi di viaggiare varcando i confini dei diversi regni e ducati in cui l’Italia era suddivisa politicamente fino agli anni ’60 dell”800, dovevano essere presenti anche altre analogie cromatiche con alcune importanti caratteristiche geologiche e paesaggistiche dell’intera Penisola. A canalizzarle, per così dire, fu il celebre poeta e scrittore Giosuè Carducci, che il 7 gennaio 1897, nel suo discorso per il centenario dalla nascita del tricolore italiano, pronunciò parole inevitabilmente intonate a una certa retorica ottocentesca, ma molto significative:
Non rampare di aquile e di leoni, non sormontare di belve rapaci nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna; le nevi delle Alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta, e sì augusta; il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l’anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi.
Questi riferimenti a determinati elementi naturalistici sembrerebbero irrilevanti per la “grande” storia e per la società attuale, abituata dai mass-media e dai poteri politico-finanziari ad essi intrecciati, a considerare degni di attenzione soltanto gli aspetti politico-mediatici di qualsiasi fatto; ma in realtà indicano che nella mente di una parte degli italiani c’è sempre stata la consapevolezza dell’inevitabile rapporto analogico tra certi colori e determinate realtà naturali che ne sono caratterizzate. L’associazione dei tre colori compare infatti nel patrimonio simbolico, etnologico, storico e letterario ben prima della fine del Settecento, quando fu utilizzata dai riformatori politici che crearono la bandiera italiana su determinati presupposti simbolico-ideologici. Ai significati prettamente storico-politici, conferiti nella storia moderna e contemporanea ai colori della bandiera italiana, se ne intrecciano dunque altri, pertinenti ai molteplici aspetti della natura, e quindi ben più antichi di qualsiasi elaborazione storica e ideologico-politica. Essendo significati metastorici e universali, essi possono affiancarsi a quelli storico-politici senza contraddirli, rimandando ad alcune realtà naturali e metafisiche che costituiscono le condizioni necessarie per la stessa esistenza degli esseri umani e per la loro convivenza pacifica, o almeno ordinata.
Secondo alcuni autori, ogni colore della bandiera nazionale italiana porterebbe con sé un significato risalente ad un passato poco anteriore alla fondazione di Roma, cioè della «Roma quadrata» nella prima metà del VIII secolo a.C.. Ad esempio, Renato Del Ponte ricordava che «i tre colori connotano peraltro anche le tre tribù primitive dei Ramnes, dei Luceres, e dei Titienses» [3] dalle quali ebbe origine una parte del popolo romano più antico. I Tiziensi o Tizii, certamente sabini, traevano nome dal re Tito Tazio al cui seguito entrarono in Roma; i Luceres o Luceri avevano origine incerta: per il noto storico d’età augustea Tito Livio, autore degli Ab Urbe condita libri XLII (I 42 libri dalla fondazione della Città), il loro nome derivava forse da Lucerus, re etrusco di Ardea, ma oggi c’è chi ipotizza una derivazione da Lucus Cereris, Bosco di Cerere, supponendo che questa tribù dedicasse un culto particolare alla dea delle messi e, appunto, dei cereali, disponendo di un lucus, cioè di una radura nel bosco come sito sacro; i Ramnes o Ramnenses erano autoctoni latini o forse originari di Ramnunte, città della Grecia famosa per il suo culto della dea Nemesi (le fu eretto un tempio nel V secolo a.C.), che potrebbe essere stato importato dai Ramnes nel Lazio dove si diffuse soprattutto ad Ariccia e a Nemi (toponimo assonante a Nemesi) [4].
Stando a quanto riporta Georges Dumézil nel suo studio L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, l’associazione fra le tre tribù primigenie della Roma arcaica e i tre colori continuò a essere considerata storicamente valida anche a distanza di secoli nell’impero romano, fino alle soglie del Medioevo. Il celebre storico delle religioni accenna a un brano (IV, 30) del trattato De mensibus (Sui mesi) scritto dal letterato tardoantico Giovanni il Lido (circa 490-562 d.C.) in cui si parla dei corridori con i carri da corsa tirati da cavalli nel Circo o Ippodromo, che i Romani assimilarono dalle conquiste ellenistiche e che nell’impero divenne il luogo privilegiato di quella che oggi chiameremmo dimensione massmediatica della politica, fino al crollo della pars Occidentis, mentre resistette circa un secolo e mezzo in più nella pars Orientis, cioè nell’impero bizantino. I corridori del circo gareggiavano appartenendo a una delle due squadre o fazioni maggiori, gli Azzurri o i Verdi, o a una delle due minori, i Bianchi (dalla parte degli Azzurri) o i Rossi (dalla parte dei Verdi) [5]. Come si vede, tre colori su quattro delle squadre-fazioni sono gli stessi attribuiti alle tre tribù cofondatrici di Roma, e i loro rappresentanti erano definiti da Giovanni il Lido: Albati (albus = bianco), Russati (russus o rubeus = rosso) e Virides (viridis = verde), rispettivamente corrispondenti, forse in loro memoria, ai Ramnes, ai Titienses e ai Luceres di oltre un millennio prima. I Ramnes (bianchi) sarebbero stati rappresentanti della sovranità e quindi di Iupiter (Giove), i Titienses (rossi) espressione della forza militare e quindi di Mars (Marte), i Luceres (verdi) associati a Venus (Venere) ma anche a Flora, dea evidentemente primaverile, e perciò alla fertilità della natura e alla fecondità umana [6], ambiti che si accorderebbero con un rapporto particolare dei Luceres con il bosco (di Cerere?), ambiente prevalentemente verde. Sul rapporto di questo colore con la dea Flora e sulle sue implicazioni fondamentali per Roma, lo stesso Dumézil scrisse in un’altra sua opera molto importante, La religione romana arcaica:
Il culto di Flora, con i Floralia di primavera, è noto in un’epoca e in circostanze di fondazione (238 [a.C.]) e di celebrazione che rendono assai probabile un’influenza greca: vi sono state riconosciute le tracce di una Afrodite Antheia. La dea però è genuinamente romana. La ritroviamo in terra sabina e in terra sannitica (ove è associata a Cerere […]); a Roma stessa, la dea è servita da uno dei dodici flamines minores: garanzia di antichità, confermata da un’altra: la presenza di Flora nell’elenco delle divinità cui sacrificano i Fratelli Arvali. Il suo nome è, con altra declinazione, quello del fiore, e la sua funzione naturale consiste nel proteggere al momento della fioritura non tanto le piante decorative quanto i cereali (Agostino, Civitate Dei, 4, 8) e altre piante utili, compresi gli alberi. La sua figura possedeva però anche ulteriori valori. Il suo nome […] era considerato «il» nome segreto di Roma, che doveva essere tenuto nascosto per la sicurezza mistica dello stato. In tale qualità, ed anche come rappresentante della terza funzione sotto Giove e sotto Marte – in una variante, dunque, della triade canonica Giove Marte Quirino – sembra che Flora fosse connessa alle più antiche corse dei carri come patrona dei «Verdi» [7].
Dunque il culto ufficiale di Flora appare istituito successivamente alla fondazione della «Roma quadrata» di circa cinque secoli, ma una venerazione della dea era presente da molto tempo prima, e il fatto che proprio quello di Flora sarebbe stato il segreto nome mistico di Roma potrebbe essere dovuto alla stagione in cui avvenne la fondazione della città: come è noto, la data di tale evento sarebbe il 21 aprile del 753 a.C., cioè in piena primavera; verosimilmente, per i fondatori rappresentati miticamente da Romolo, il fatto che la nascita di Roma fosse simultanea alla rinascita della natura non era certo una corrispondenza casuale, bensì legata alla dimensione soprannaturale e all’assenso divino (numen).
In La religione romana arcaica, Dumézil ricorda che Ramnes, Luceres e Titienses furono anche i nomi conferiti dal leggendario re di Roma Tarquinio alle prime tre centurie di cavalieri [8], fatto che potrebbe costituire il nesso “equestre” fra le tre tribù cofondatrici e le squadre dei corridori dell’ippodromo d’epoca repubblicana ed imperiale. Nel medesimo testo il Dumézil riflette anche su un’ipotesi in cui i ruoli dei Luceres (etruschi?) e dei Titienses sabini appaiono invertiti: i Luceres potrebbero essere stati «gli specialisti della guerra», e i Titienses associati ai campi e alla pastorizia perché «caratterizzati dalla ricchezza di greggi» [9]: in questo caso, ai Luceres sarebbe da abbinare il rosso del sangue sparso in guerra ed ai Titienses il verde dei pascoli. A prescindere da quest’ultimo problema di attribuzione delle rispettive attività, e quindi dei corrispondenti colori simbolici a due tribù su tre dell’arcaico mondo romano, la radice dei tre colori italiani sarebbe dunque da ritrovarsi nell’antichissimo Lazio, dove – verosimilmente come in altre regioni storiche d’Italia e non solo – il bianco rappresentava la purezza, il rosso la forza, il verde la fecondità, ovvero le tre condizioni rispettivamente necessarie per il giusto esercizio della sovranità, per il combattimento e per l’esistenza stessa di un popolo.
In questo contesto i tre colori rappresenterebbero quindi – ancora secondo Dumézil – anche le tre fondamentali funzioni castali tipiche dei popoli di matrice indoeuropea: nell’India vedica, che potremmo definire figlia primogenita dei popoli indoeuropei e quindi “cugina maggiore” degli antichi Romani, i tre varna (letteralmente «colori»), nero rosso e bianco, corrispondevano alle tre caste sociali, rispettivamente – ed in senso ascendente – i sudra (lavoratori), gli ksatriya (militari, guerrieri) e i bràhmana (i sacerdoti), nel qual caso al nero si associava la fecondità (probabilmente per analogia con il bruno scuro dell’humus fertile), al rosso il conflitto e quindi la guerra (certamente in riferimento al sangue), al bianco la sovranità, quindi la legge che vincolava l’assemblea del popolo riunita intorno al re (rex in latino, raja in sanscrito) [10]. Il bianco era quindi legato alla categoria di sovranità sia politica sia spirituale; a questo proposito, si può anche ricordare che a Roma gli uomini che volevano intraprendere la carriera politica, cioè la gestione della sovranità, si presentavano vestiti di bianco candido, norma da cui derivò l’uso ancora attuale di definire «candidato» chi si propone per essere eletto ad un ruolo politico o amministrativo.
Ipotizzando che gli stessi progenitori dei Romani conoscessero qualcosa del significato dei tre colori indiani (e ciò non sembra da escludere in modo assoluto, vista l’effettiva somiglianza fra alcuni elementi religiosi e linguistici fra la Roma arcaica e l’India vedica [11]), è spontaneo chiedersi se, e come, collocarono il verde in luogo del nero. La questione va ben al di là di quanto chi scrive conosca e possa trattare qui, ma una congettura ci è suggerita da Dumézil là dove, in La religione romana arcaica, illustra una delle forme tipiche di appropriazione romana di divinità straniere, l’evocatio, la «chiamata all’esterno» con cui i Romani, «verso la fine di un assedio o quando prevedevano di conquistare una città entro breve tempo, si rivolgevano ai suoi dèi tutelari con una formula tradizionale, certo carmine, per invitarli ad abbandonare e a condannare il proprio paese, ed a favorire l’assediante; al tempo stesso, promettevano a quegli dèi, che in Roma sarebbero stati loro tributati onori uguali o superiori»; come ricorda lo studioso, «il rituale hittita di evocatio […], giustamente ravvicinato al rituale romano, chiede agli dèi della città assediata di uscire per tre vie, colorate di bianco, di rosso e di blu: il che presuppone una classificazione degli dèi di tipo indoeuropeo, con gli stessi colori simbolici attribuiti alle tre funzioni dagli Indiani e dagli Iranici» [12]. Gli ipotetici contatti tra Latini e Hittiti potrebbero essere espressi dal notissimo mito di Enea, latino espatriato a Troia che torna nel Lazio come profugo di guerra, poiché l’altro famoso nome di Troia, Ilios, è stato identificato nell’assonante toponimo anatolico Wiliusa o Wilusa, città crollata insieme all’impero hittita appunto nell’epoca in cui i dati incrociati della storia, dell’archeologia e dell’Iliade consentono di situare la guerra tra Achei e Troiani: verso il 1200-1180 a.C., un periodo di bruschi cambiamenti per l’intera area mediterranea, caratterizzata dalla compresenza di crisi climatiche e delle migrazioni in massa dei «Popoli del Mare».
La triade bianco-rosso-blu degli Hittiti era perciò conosciuta dai fondatori di Roma? E potrebbe essere il tratto d’unione – anche geografico, data la collocazione dell’impero hittita quasi a metà strada fra l’India e l’Italia – fra la triade bianco-rosso-nero degli Indiani e quella bianco-rosso-verde dei Romani? Dumézil stesso, a proposito delle squadre-fazioni dell’Ippodromo, riteneva verosimile che quella degli Azzurri sarebbe stata in origine inesistente poiché l’azzurro e il celeste erano probabilmente concepiti come tonalità cerulea (da caeluleus = celeste) dello stesso colore verde, e soltanto in un secondo tempo separati da esso [13]. Il nero indiano dell’humus potrebbe essere stato confrontato con il blu degli Hittiti e, durante la fondazione di Roma, sostituito con il verde del bosco sacro dei Luceres devoti a Cerere e della rinascita della natura rappresentata da Flora – la primavera nel pieno della quale fu fondata Roma – dando così spazio a una divinità femminile? In questo modo, l’ipotetico passaggio dal nero al verde attraverso il confronto con il blu conserverebbe il nesso con la fertilità, trasferito dalla metafora della terra bruna a quella dei prodotti agricoli e degli alberi, cosicché il riferimento generico alla fertilità sarebbe stato reso specifico, legato ad un evento preciso avvenuto nella stagione più fertile: la fondazione di Roma durante il ciclico “regno” di Flora. Da questo punto di vista, i primi Romani avrebbero avuto validissime ragioni per sostituire il nero-bruno vedico-indiano con il verde sabino, relativamente più simile al blu-celeste che al nero.
La triade verde-rosso-bianco ricompare poi negli ultimi decenni del Medioevo, nel poema italiano per eccellenza, la Divina Commedia di Dante Alighieri, che si affida alla guida ultraterrena proprio di Virgilio, l’autore fondamentale del mito di Enea ricordato poco sopra. Il sommo Poeta ci mostra la manifestazione quasi teofanica, nel Paradiso terrestre, dell’anima di Beatrice Portinari, sua amata ed ispiratrice, a contatto con tre tessuti che hanno i medesimi colori del tricolore italiano: una veste rossa, un velo bianco, un manto verde (Purgatorio, XXX, 31-33):
Sovra candido vel, cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto,
vestita di color di fiamma viva.
Come è noto, nel Purgatorio questi colori rappresentano le tre Virtù teologali: il bianco la Fede, il verde la Speranza, il rosso la Carità, le tre virtù fondamentali del cristiano (ma si potrebbe auspicare di ogni essere umano), che Dante, poco prima, aveva visto in aspetto di giovani donne danzanti: una rossa come il fuoco, la seconda verde come lo smeraldo, la terza bianca come la neve (Purgatorio XXIX 121-129):
Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
che a pena fora dentro al foco nota;
l‘altra era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa.
Questi colori sono stati associati per la prima volta alle tre virtù teologali probabilmente proprio da Dante stesso, e sono anche i medesimi dei tre indumenti indossati da Beatrice – il vestito rosso, il manto verde, il velo bianco – a indicare come ella sia rivestita delle Virtù, nel senso che esse le appartengono intimamente. Vale la pena di notare la corona di rami di ulivo che cinge la testa di Beatrice, simbolo di pace e di saggezza: nel mito greco, la dea Atena vinse la sfida contro il dio tellurico Poseidone creando proprio l’albero di ulivo, e nella tarda Roma repubblicana verrà assimilata alla italica Minerva (già presente fra gli Etruschi come Menrva), collocata nella Triade Capitolina al posto di Marte, il che equivale anche ad un passaggio (attualissimo) dalla propensione alla guerra alla necessità della pace.
Anche Dante dunque, nel mostrare i colori delle tre figure femminili allegoriche e delle vesti di Beatrice, ricorse ad analogie non elaborate dall’uomo su significati contingenti, ma connesse a tre fenomeni naturali che meravigliano l’essere umano per le loro proprie caratteristiche: la fiamma del fuoco; lo smeraldo, un minerale che nasce nella terra; la neve, che è acqua congelata. Come si è visto, anche Giosuè Carducci nel suo discorso del 1897 aveva evocato tre espressioni della natura: il verde delle valli in primavera, il bianco della neve, il rosso della lava vulcanica; ma i tre fenomeni ricordati da Dante, a differenza di quelli del Carducci, si ricollegano meglio a tre elementi naturali su quattro della notissima classificazione antica stabilita dal filosofo Empedocle: il fuoco, la terra, l’acqua. In questo caso è assente l’aria, elemento che si può associare benissimo al cielo, e qual è il colore tipico del cielo? L’azzurro o il celeste, lo stesso che manca nella tripartizione della Roma arcaica: allora Dante seppe forse unire l’antico schema romano al significato cristiano? Non sarebbe strano, visto che il Poeta, ad esempio, ci presenta Virgilio che chiama il Dio cristiano «sommo Giove» (Inferno, XXXI, 92), definisce il Paradiso «quella Roma onde Cristo è romano» (Purgatorio XXXII, 102) e colloca persino l’imperatore Traiano in Paradiso (Purg., X, 73-93; Paradiso, XX, 44-45, 100-117), sulla base di una credenza diffusa durante l’intero Medioevo, secondo la quale papa Gregorio Magno, all’inizio del VII secolo, pregò per l’anima dell’imperatore e ne ottenne la beatitudine ultraterrena.
I medesimi tre colori comparivano associati fra loro e con l’ambito naturale, in particolare di nuovo arboreo, già in un romanzo allegorico francese, la Queste del Saint Graal (Cerca del Santo Graal), una versione della leggendaria Cerca del Graal da parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda, creata in ambienti filo-cistercensi verso il 1225, cioè novant’anni prima che Dante scrivesse la Divina Commedia, e tuttavia – come si vedrà – avente più di una comunanza con essa. L’autore fu un anonimo francese detto Pseudo-Map, perché egli attribuisce questa storia al «maestro» Gautier Map, che l’avrebbe riassunta attingendo da altri libri presenti nella biblioteca di Salebières [14], ma Gautier Map sarebbe l’inglese Walter Map, arcidiacono di Oxford morto tra il 1208 e il 1210, autore, tra l’altro, del De Nugis curialium, testo che parla anche dell’Ordine dei Cavalieri Templari [15]. In una delle Avventure della Queste, Galaad, il più puro di cuore tra i Cavalieri della Tavola Rotonda, ritrova i suoi compagni Bohort e Parsifal; i tre Cavalieri, insieme a una dama che aveva guidato Galaad, salgono a bordo di una nave (che, come si evince dal racconto, è un’allegoria materiale della fede cristiana) sulla quale trovano un drappo di seta e una spada infilata nel fodero, entrambi oggetti straordinari, con scritte misteriose che profetizzano che un solo uomo sarà destinato a prenderne possesso (e quindi a raggiungere il Graal). Drappo e spada sono posati su un letto di legno al quale sono state applicate tre assi ricavate da un legno miracoloso, i cui colori non si devono alla pittura umana: su un lato un’asse bianca come la neve, sull’altro una di legno rosso vermiglio, e sopra entrambe, a unirle, una verde brillante: esattamente come il bianco neve, il rosso fuoco e il verde smeraldo delle Tre Virtù nel Purgatorio dantesco. A questo punto, la Queste del Saint Graal inserisce la leggenda del legno tricolore derivato dall’«Albero della Vita».
Dopo l’espulsione di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, Eva conservò il rametto dell’Albero dal quale aveva colto il frutto proibito, lo piantò nel terreno ed esso germogliò nuovamente: in modo simile, all’inizio del Purgatorio la pianta di giunco che Virgilio strappa dal suolo per farne la cintura penitenziale da applicare ai fianchi di Dante rinasce «subitamente là ove l’avelse» (Purgatorio, I, 94-95, 124-136). Il ramo di Eva crebbe, diventò un albero, e quest’albero fu bianco candido, in segno del fatto che Eva, quando lo piantò, era vergine. Tutti gli alberi nati dai semi dell’Albero bianco furono bianchi; dopo che Eva, già madre di Caino, si unì ad Adamo e restò incinta di Abele, l’Albero bianco divenne tutto verde, a indicare che questo figlio di Eva sarebbe stato un giovane puro di cuore. Anni più tardi, proprio davanti all’Albero verde Caino uccise Abele e nascose il suo cadavere sotto le foglie: perciò l’Albero verde divenne completamente rosso, come il sangue innocente sparso sotto i suoi rami; così, mentre gli alberi bianchi nati dall’Albero quando era bianco, e quelli verdi nati quando era verde, continuavano a dare vita ad alberelli rispettivamente bianchi e verdi, dai semi dell’Albero rosso nascevano solo piantine rosse che morivano subito. Secoli più tardi – prosegue la leggenda – Dio rivelò al saggio re Salomone che, in un lontano futuro, sarebbe nata una donna che, al contrario di Eva, donerà la salvezza all’umanità (la Vergine Maria). Salomone volle tramandare questa rivelazione ai futuri re e cavalieri in attesa dell’evento messianico; si rivolse quindi a sua moglie, più saggia e astuta anche di lui, la quale gli consigliò di far costruire una nave con il migliore legno del mondo, che non marcisse mai: e Salomone così fece, collocando poi sulla nave (che sarà scoperta dai tre Cavalieri arturiani) il letto di legno, la spada e il drappo di seta con le scritte profetiche. La regina, per contrassegnare ulteriormente l’importanza del letto e degli oggetti posati su di esso, guidò poi due carpentieri all’Albero Rosso ordinando loro di tagliarlo: un pezzo dell’Albero Rosso, insieme a quelli tagliati da un Albero Bianco e da un Albero Verde, sarà applicato al letto sulla nave (e così infatti li troveranno i tre Cavalieri). Nonostante il timore di abbattere l’Albero primordiale, i due carpentieri impugnano l’ascia, e appena fanno i primi tagli si spaventano, perché dal tronco color sanguigno zampilla appunto del sangue umano: proprio come accade nella dantesca foresta dei suicidi, dove Dante incontra Pier Delle Vigne tramutato eternamente in un albero dal quale, appena il Poeta stacca un ramo, escono «parole e sangue» (Inferno, XIII, 25-45).
Ancora più indietro nel tempo e più a nord-ovest nello spazio geografico, ritroviamo il corbezzolo, che – come si è visto – nel Risorgimento fu considerato l’arbusto simbolo del tricolore italiano e quindi del nostro Paese. Il corbezzolo figura tra gli alberi e gli arbusti il cui abbattimento non autorizzato era proibito dalle leggi vigenti nell’antica Irlanda, nazione la cui bandiera moderna somiglia alla nostra e che celebra la sua festa nazionale il giorno di san Patrizio, lo stesso dell’unificazione d’Italia: il 17 marzo. Teniamo presente che l’Irlanda fu l’ultimo luogo d’Europa in cui si conservò l’antichissima cultura dei Celti, dato che non fu mai conquistata da Roma, e fu cristianizzata con tre secoli di ritardo sull’Europa meridionale: nel caso irlandese, il verde della prima sezione è ispirato al regno vegetale, al trifoglio molto presente sull’isola e simbolo del Cattolicesimo, caratterizzato dalla dottrina sulla Trinità di Dio (secondo la tradizione, il primo vescovo d’Irlanda, san Patrizio, seppe spiegare questo dogma al re dell’isola proprio servendosi del trifoglio, essendo composto di un solo stelo con tre foglie unite fra loro al centro). Dunque nell’antica Irlanda precristiana si riconosceva al corbezzolo qualche significato particolare, anche se forse non un valore sacro (come ad esempio al melo): nel suo famoso studio La Dea bianca (1946), Robert Graves ricordava che «nell’Irlanda medioevale esistevano numerosi sistemi di classificazione arborea. Ad esempio, secondo le Leggi del Brehon (IV, 147) gli alberi erano divisi in quattro categorie con una scala discendente di sanzioni pecuniarie per chi li abbatteva senza permesso»: i Sette Alberi Signori, i Sette Alberi Contadini, i Sette Alberi Arbusti e gli Otto Alberi Pruni [16]. Tra questi 29 alberi di varia specie (forse non a caso il numero dei giorni del ciclo lunare), il corbezzolo è il quinto dei Sette Alberi Arbusti, diciannovesimo sul totale; ha quindi prima di sé 18 alberi, e altri 10 dopo: curiosamente, 18 e 10 sono gli anni di età, arrotondati con un leggero eccesso nel secondo caso, di Dante Alighieri al momento dei suoi due incontri significativi con Beatrice, che la prima volta è vestita di rosso, la seconda di bianco: gli stessi colori rispettivamente della bacca e del fiore del corbezzolo. Vestito di questi stessi colori sarà quasi sempre rappresentato Dante, e che egli si vestisse effettivamente di rosso e di bianco abbiamo un’indicazione coeva forse unica, ma attendibile, in ciò che resta del suo ritratto dipinto nella Cappella della Maddalena a Firenze da Giotto di Bondone, amico del Poeta.
Naturalmente ciò non significa affatto che i ricordi di Beatrice rievocati e interpretati da Dante nella Vita Nova ed il potente ritratto allegorico dell’amata nella Divina Commedia, siano puramente finzioni poetiche basate sulla modifica di un elemento della tradizione mitologico-folkloristica irlandese; ma le analogie e le coincidenze fra questi diversi contesti, come del resto la circolazione internazionale di numerosi topoi iconografici, letterari e folkloristico-popolari nell’Europa medievale, sono un dato di fatto. Come se tutto questo non bastasse, si può riscontrare ai nostri giorni una serie di coincidenze significative fra il tricolore italiano da un lato, e Dante e le sue opere più conosciute dall’altro, questa volta su base numerologica. Nel sistema internazionale di classificazione cromatica Pantone, dal 2006 i tre colori utilizzati per la bandiera italiana sono così denominati e codificati:
Verde felce (Fern green): n. 17-6153;
Bianco acceso (Bright white): n. 11-0601;
Rosso scarlatto (Scarlet red): n. 18-1662.
Se si sommano le cifre di ciascun colore, si ottengono numeri che, sia considerando le due cifre iniziali separate (S), sia considerandole unite (U), rimandano sorprendentemente sempre ad alcuni riferimenti a e di Dante Alighieri:
Verde S: 1 + 7 + 6 + 1 + 5 + 3 = 23, il numero delle coltellate inflitte a Giulio Cesare, di cui Dante vendica l’omicidio collocando due dei suoi traditori (Bruto e Cassio) direttamente tra le fauci di Lucifero, ovvero di Satana; Verde U: 17 + 6 + 1 + 5 + 3 = 32, il canto dell’Inferno in cui il Poeta attraversa l’Antenora, regione in cui sono puniti proprio i traditori della patria.
Bianco S: 1 + 1 + 0 + 6 + 0 + 1 = 9, gli anni di Dante quando vede per la prima volta Beatrice, che sarà contraddistinta da molte altre coincidenze significative legate al numero 9 (a partire dal finale del suo nome in latino, BEATRIX, che è il 9 in caratteri romani); Bianco U: 11 + 0 + 6 + 0 + 1 = 18, gli anni di età di Dante quando vede Beatrice vestita di bianco (fatto già emerso anche a proposito della serie degli alberi notabili nella tradizione irlandese).
Rosso S: 1 + 8 + 1 + 6 + 6 + 2 = 24, gli anni di Beatrice quando morì, probabilmente di parto (forse per questa ragione Dante, nel Paradiso, la immagina seduta vicina alla biblica Rachele, che morì dando alla luce Beniamino, l’ultimo futuro capotribù ebraico); Rosso U: 18 + 1 + 6 + 6 + 2 = 33, il numero dei canti di ciascuna cantica della Divina Commedia (eccetto il primo dell’Inferno che funge da proemio).
Da tempo immemorabile, dunque, la triade cromatica verde-bianco-rosso sembra essere stata registrata dalla mente umana come qualcosa di peculiare anche oltre i confini d’Italia: gli esempi menzionati fin qui riguardano, grossomodo, l’ambiente naturale e culturale dell’Europa occidentale. Potrebbe quindi sembrare ideologico o inutile concentrarsi sul vessillo italiano come su qualcosa di estremamente particolare. Ma ideologico non è, né – si spera – inutile, perché effettivamente in nessun altro stato dell’Europa occidentale è accaduto che i tre colori, pur essendo così universali, siano stati trasposti sulla bandiera nazionale; ad eccezione di quella d’Irlanda, dove comunque la terza sezione non è rossa ma arancione, e quindi corrispondente a certe tonalità del fuoco, della lava vulcanica e della luce solare al crepuscolo, ma non al sangue umano, non vi sono altri esempi di bandiera verde-bianco-rossa. L’Europa orientale ne ha solo due: Bulgaria e Ungheria. Per quanto riguarda gli altri continenti, tre soli casi sono africani: Algeria, Burundi e Madagascar; uno solo americano, il Messico; i restanti quattro sono asiatici: Iran, Isole Maldive, Oman, Tagikistan. Dunque in tutto il mondo esistono soltanto altre dieci nazioni rappresentate dagli stessi tre colori, e sovente, la disposizione sulle loro bandiere delle sezioni colorate, o la presenza di alcuni elementi particolari (ad esempio la mezzaluna islamica dell’Algeria e delle Maldive) limitano la possibilità di riconoscere in esse le implicazioni articolate ed universali che nel caso dell’Italia si è cominciato a intravedere, e che si vedranno meglio nella seconda parte di questo articolo.
Curiosamente, l’unica bandiera al mondo quasi identica alla nostra – quella del Messico – è probabilmente anche la sola in cui si possa riscontrare un lontano parallelo mitologico con la tradizione romana. Come si sa, questa includeva la divinazione del volo degli uccelli, forse di origine etrusca (come l’aruspicina o divinazione del fegato d’animale) ed interpretata dagli augures come auspicio fausto o infausto: secondo la versione di Tito Livio (Ab Urbe condita, I, 12, 4-6), lo stesso mitico fondatore Romolo, seguendo il volo di dodici avvoltoi, avrebbe proclamato: «O Giove, per ordine dei tuoi uccelli io gettai qui sul Palatino le prime fondamenta della città» [17], e ancora all’inizio del IV secolo, l’imperatore Costantino I, che poi si convertirà al Cristianesimo, fondò la «Nuova Roma» – come venne chiamata Costantinopoli durante l’intero «millennio bizantino» – avendo osservato uno stormo di aquile che volavano verso la riva europea del Bosforo portando con sé le corde da utilizzare per misurare l’area destinata alla futura capitale orientale [18]. Similmente, nel tricolore messicano il settore bianco è visibilmente caratterizzato dall’aquila con il serpente nel becco, un riferimento al noto mito di fondazione di Tenochtitlán, che sarebbe stata fondata dove il rapace si posò su un cactus, sulla stessa isola lacustre su cui sorge l’attuale Ciudad de Mexico.
Note:
1 – «Minuziose ricerche storiche hanno consentito di tracciare un bilancio del Terrore. In meno di un anno, i condannati a morte furono circa 17.000, ai quali vanno aggiunte le vittime delle esecuzioni in massa (come quelle annegate nella Loira, a Nantes, durante la repressione dell’insurrezione vandeana) per un totale di 35-40.000. A Parigi le sentenze di morte furono 2639, ma la grande maggioranza fu pronunciata nelle regioni insorte. Il 31 % delle vittime furono operai e artigiani, il 28 % contadini, il 25 % borghesi; i preti e i nobili furono rispettivamente poco più dell’8 e del 6 %. Assai più difficile invece è valutare le vittime della “pacificazione” militare di intere regioni (decine o centinaia di migliaia?)»: Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Guida alla storia – vol. 2, Dal Seicento all’Ottocento, Bari, Laterza, 5a ristampa 2000, p. 570.
2 – Cfr. Antonio Socci, Bianco rosso e verde simboleggiano le tre virtù teologali…, sul blog Lo Straniero, 30 luglio 2023.
3 – Citato in Adriano Scianca, La nazione fatidica. Elogio politico e metafisico dell’Italia, Milano, Altaforte Edizioni, p. 54, recensito da Giovanni Sessa su metafisica dell’Italia la nazione fatidica di Adriano Scianca di Giovanni Sessa.
4 – Giacomo Maria Prati, durante la video-discussione Prima Roma. Mito e sacra religio, presentazione del libro di Valentina Ferranti e G. M. Prati, Prima Roma. Le origini alla luce del mito, XPublishing Edizioni, 2022 (Pagine Filosofali, 19 ottobre 2022, Prima Roma: Mito e Sacra Religio). Il significato di lucus come «radura nel bosco» era presente nell’Italia centrale già in epoca preromana, tra gli Umbri: vedi ad es. la dettagliata ed approfondita, ma probabilmente poco conosciuta, ricostruzione del culto umbro e del «rito del luco» di Maria Luisa Porzio Gernia, Offerta rituale e mondo divino. Contributo all’interpretazione delle Tavole di Gubbio, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2004, in particolare pp. 135-136 e nota 43.
5 – I sostenitori degli Azzurri e dei Verdi coincidevano anche, grossomodo, con le due fazioni politico-economiche romane degli optimates (i grandi proprietari e gli aristocratici, di tendenza conservatrice) e dei populares (i piccoli commercianti, artigiani e lavoratori, favorevoli a una più equa redistribuzione del potere e del denaro). Curiosamente, anche la squadra dei Verdi, per il suo colore, aveva un soprannome agricolo: «Pràsini», dal greco pràsinos, la pianta del porro (Procopio di Cesarea, Anekdota – Storia segreta, IX, 5). Delle squadre-fazioni bizantine mi sono occupato in La città bizantina, Tesi di laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali, relatore prof. Mario Gallina, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, A.A. 2013-2014, pp. 10-11 (leggibile su www.tesionline.it/, www.academia.edu, www.calameo.com/).
6 – Cfr. Mario Enzo Migliori, Luci sul tricolore romano, in “Arthos”, anno I n. 2 / luglio-dicembre 1997, poi ripubblicato sul sito Centro Studi “La Runa”, 7 gennaio 2009: https://www.centrostudilaruna.it/luci-sul-tricolore-romano.html.
7 – Georges Dumézil, La religione romana arcaica, trad. it. Milano, Rizzoli, 2017, pp. 243-244. I Fratelli Arvali erano «sacerdoti incaricati della protezione mistica dei campi» (ibidem, ivi, p. 242 nota 35).
8 – Ibidem, ivi, p. 176.
9 – Ibidem, ivi, p. 156.
10 – I Miti di Midgard, presentazione del libro di Fabrizio Bandini Tre saggi sulla Tradizione nordica, Città di Castello, Midgard Editrice, video-presentazione su Axis Mundi, 14 marzo 2022, https://www.youtube.com/watch?v=G0dbq-zdghc. Questo modello di struttura sociale tripartita (religiosi, militari, lavoratori), gerarchica ma anche interconnessa, sarà in parte riconoscibile ancora nell’Europa quasi completamente cristiana del pieno Medioevo, nel noto poemetto Carmen ad Robertum regem (Carme al re Roberto) dedicato dal vescovo Adalberone di Laon (morto nell’anno 1030) al re di Francia Roberto il Pio: «Alcuni pregano, altri combattono, altri ancora lavorano», e nei tre termini latini che la riassumono: oratores, bellatores, laboratores.
11 – Accenni a ciò si trovano ad es. – oltre che in Dumézil, La religione romana arcaica, cit., passim – in Pio Filippani-Ronconi, L’Induismo, Roma, Newton & Compton, 1994; Il Buddhismo, Roma, Newton & Compton, 1994.
12 – Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 369-370 (l’autore scrive euocatio, assimilando la V alla U come in molti altri casi: uotum per votum, uniuersi per universi, ecc.).
13 – Ricordato da Migliori, Luci sul tricolore romano, cit..
14 – Cfr. La Cerca del Santo Graal, trad. it. a cura di Anna Rosso Cattabiani, Milano, Rusconi, 1996, pp. 5 e 229.
15 – Cfr. Malcolm Barber, La storia dei Templari, trad. it. Casale Monferrato, Piemme, 2004, pp. 13-15, 77, 94, 124, 258, 266, 379. Sulla vicinanza fra Cistercensi e Templari, e tra questi ultimi e Dante, si possono vedere gli articoli di chi scrive, su Pagine Filosofali (“Dante Templare” di Robert L. John, in 9 parti) e su “Riscontri – Rivista di cultura e di attualità”: Il «Gran Fior» del Paradiso. Dante, la Candida Rosa e il Sacro Graal (anno XLIV n. 1, gen.-apr. 2022), Dante e l’Islam, l’Induismo e il Buddha. Legami ipotetici e tracce nella Commedia (anno XLIV n. 2, mag.-ag. 2022), «Papè Satàn, Papè Satàn Aleppe». Dante Templare contro l’Anticristo francese? (anno XLIV n. 3, set.-dic. 2022).
16 – Robert Graves, La Dea bianca. Grammatica storica del mito poetico, a cura di Alberto Pelissero, Milano, Adelphi, 1992, pp. 234-235. Il brehon era il più alto giureconsulto con funzione di giudice in ogni comunità irlandese, quasi allo stesso livello del re: vedi ad es. Morena Poltronieri, Irlanda magica. Miti celtici, natura selvaggia, fantasmi e altri misteri, Riola (BO), Mutus Liber, 2020, p. 19; Vanessa Leonini, La civiltà dei Celti, Editoriale Zeus, La Spezia, 2000, p. 126.
17 – Vedi Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 175, 429, 432-433.
18 – Tramandato da Costantino Manasse (XII secolo), Synopsis istoriké, in Guido Cortassa, Splendore e agonia della Città Regina. Voci di intellettuali e di popolo sulla caduta di Costantinopoli, corso di Cultura bizantina, Università degli Studi di Torino, A.A. 2006-2007, p. 11; Raquél López Melero, La fondazione di Costantinopoli, in “Storica National Geographic”, n. 44 / ottobre 2012, p. 62.
(fine prima parte – continua)
Piervittorio Formichetti