
Il tricolore italiano come simbolo metastorico – 2^ parte – Piervittorio Formichetti
(continua)
La lettura visiva dei colori della bandiera italiana viene attuata spontaneamente, da chi lo osserva, a partire dall’asta che la sorregge; ciò è stato ufficializzato, per così dire, nell’articolo n. 12 della Costituzione della Repubblica Italiana: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, in tre bande verticali di eguali dimensioni». Cominciamo quindi dal colore più vicino all’asta, il verde.
Il verde è il colore predominante nella natura: la vegetazione, resa verde dalla clorofilla, dal punto di vista umano (che è l’unico di cui ognuno di noi può avere esperienza diretta) è centrale nello spazio, cioè appare situata tra terra e cielo, appunto come la specie umana; il verde naturale sta, per così dire, ad altezza d’uomo. Come l’essere umano si regge sui piedi a contatto con il suolo, anche la pianta si basa sulle radici nella terra, ed entrambi tendono verso l’alto: l’uomo e la pianta sono forme di vita caratterizzate dalla prevalenza della stazione eretta sulle altre posture possibili. Le forme più primitive di ominidi, secondo la teoria evoluzionistica di Charles Darwin, nacquero nelle fitte foreste primordiali, quindi il verde naturale è verosimilmente il colore più impresso nella memoria subconscia umana, e forse è anche per questo che, ad esempio, in alcune lingue esistono due diversi vocaboli con cui distinguere il verde della vegetazione da quello artificiale: in giapponese, ad esempio, rispettivamente midori e aoi, con quest’ultimo usato per indicare anche cose blu chiaro o azzurre, compresi gli occhi umani [19]; in un certo modo, ritroviamo qui la stessa ambiguità di percezione cromatica già presente nell’antichità, quando – come si è visto riguardo alle fazioni dell’Ippodromo nell’impero romano e alla loro possibile reminiscenza delle tre tribù cofondatrici di Roma – si consideravano indistinguibili dal verde alcune tonalità di azzurro ceruleo o di blu chiaro.
Abbiamo visto anche un legame tra il verde e la fecondità, cioè la generazione della vita e quindi soprattutto la dimensione femminile e la maternità, su cui si dovrà necessariamente tornare. Questo tema ci ricorda un’espressione poetica dell’autrice toscana Silvia Dondoli, che con un gioco di parole significativo rappresenta la «vocazione» umana in rapporto alla differenza sessuale: mentre la vocazione dell’uomo consiste nella «virilità», la cui massima espressione non è l’ostentazione della sessualità ma l’abnegazione, la capacità di dedicare la vita alla donna amata, alla propria famiglia, alla patria o anche a un’arte, quindi una disposizione che richiede di saper “ardere” di fuoco interiore, la vocazione della donna si esprime nella «viridità», cioè la forza generante (il verde è il colore della germinazione, del generarsi della natura), la capacità di dare alla luce qualcuno (il figlio) o qualcosa che possa a sua volta irradiare luce spirituale, ad esempio una forma d’arte; quindi la donna viridis ha un influsso sulla crescita, fisica e/o spirituale, delle persone circostanti [20]. La «viridità» così intesa sembra richiamarsi indirettamente alla famosa mistica cristiana Hildegarda di Bingen (proclamata Dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI nel 2012) che descriveva la costante attività creativa di Dio riferendosi esplicitamente al colore verde in una serie di tre principii cosmici, accomunati da un’assonanza forse non casuale: vis (energia), virtus (virtù, ma anche forza) e viriditas, ossia «l’eterno germogliare verde dell’Universo» [21]. La «viridità» della donna di Silvia Dondoli e la viriditas di Dio di Hildegarda sono in comunicazione fra loro (dal punto di vista metafisico-teologico, la prima è un’espressione circostanziata della seconda, come anche la virilità) e hanno in comune una caratteristica fondamentale su cui si tornerà più avanti: l’espansione, l’espandersi nello spazio-tempo.
La sezione verde della bandiera italiana è anche quella più vicina all’asta che la sorregge: è letteralmente annodata ad essa. Anche in questa circostanza sembra replicarsi inconsapevolmente l’attività della natura: un’interazione analoga si trova soltanto nel regno vegetale, dove le foglie verdi germogliano e crescono attaccate a un ramo che nella maggioranza dei casi cresce tendendo verso l’alto, verso la luce del Sole. Non è un caso se proprio con il verbo «inalberare» si indica l’atto di innalzare qualcosa di legato ad un palo verticale, come uno stendardo o la vela di una nave, dove infatti i pali sono chiamati «alberi»: la tecnologia imita sovente la natura, ma non avviene mai il contrario. Allo stesso tempo, l’annodarsi della banda verde all’asta può far pensare alla notissima pianta rampicante dell’edera, alla quale è stato associato il motto (a quanto pare, di origine francese) «Dove mi attacco, muoio», che può ricordare due aspetti differenti e a prima vista quasi antitetici: la fedeltà della coppia nel legame d’amore, e il principio militare di non abbandonare mai la bandiera durante i combattimenti. Dal punto di vista degli archetipi greco-romani, questi due ambiti sono pertinenti rispettivamente a Afrodite-Venere (ma anche a Hera-Giunone, patrona dei matrimoni) e a Ares-Marte – il cui attributo bellico, la lancia, è in parte simile all’asta che regge la bandiera – cioè proprio alle figure che rappresentano il principio femminile e il principio maschile predisposti ad unirsi. Nel legame tra l’asta e la banda verde si potrebbe notare un ulteriore significato che non si allontana troppo da quest’area tematica. Sopratutto dopo la diffusione degli scritti di Sigmund Freud, ma certamente anche nei millenni precedenti, molti hanno notato l’analogia possibilmente allusiva al fallo di qualsiasi forma allungata; nel caso del tricolore italiano, all’asta che richiama Marte si unisce non il bianco, non il rosso, ma il verde, cioè il colore associato a Venere e Flora: anche da questo punto di vista “freudiano” vi si può quindi leggere l’unione tra il maschile e il femminile, dalla quale nascono nuovi esseri viventi.
Nell’annodarsi del verde all’asta si possono vedere anche altri due aspetti della realtà naturale e psicologica, diversi fra loro e tuttavia complementari e interagenti.
L’interpretazione cristiana dei tre colori, come si è visto a proposito delle tre Virtù nella Divina Commedia di Dante, assegna al verde la speranza: quest’ultima virtù è focalizzata sempre verso il futuro ed è quindi intrecciata all’attesa della realizzazione di qualcosa o della presenza di qualcuno. Si può così notare che anche da questo punto di vista i tre colori, cioè le tre virtù teologali del Cristianesimo, sulla bandiera italiana appaiono in una sequenza dotata di significato: un’espressione del rapporto fra la psiche umana e la rivelazione divina. In buona sostanza, le tre virtù sono collocate a partire dalla più facile alla più impegnativa da praticare per l’essere umano: al primo posto la Speranza (verde), l’atteggiamento più istintivo e semplice: tutti speriamo che tutto vada sempre meglio; al secondo posto la Fede (bianco), che richiede un maggior impegno psicologico e spirituale: la fede in Dio, nella sua presenza e nella sua provvidenza non si raggiunge senza fatica; infine, al terzo posto, la Carità (rosso), che richiede l’unione tra uno stato d’animo stabilmente sereno e fermo, poiché basato sulla fede in Dio – nell’Islam questa condizione è espressa dalla parola araba sakina, che è ben di più della semplice tranquillità d’animo di chi ha la coscienza pulita – e la buona volontà per dare luogo ad azioni finalizzate al bene di qualsiasi persona: tutto ciò, senza una fede più che salda, è estremamente impegnativo e difficile da attuare senza cedimenti: si pensi all’esortazione di perdonare «settanta volte sette» qualsiasi torto da parte di chiunque (Vangelo secondo Matteo, 18, 21-22).
La speranza è quindi essenzialmente in stretto rapporto con il tempo. A che cosa si annoda la banda verde del tricolore italiano? Ad un’asta perlopiù verticale, un oggetto che deriva, più che da ogni altra cosa, da un ramo di legno lavorato per farne un lungo bastone: l’attributo di Crono-Saturno, il dio greco-romano associato appunto al tempo, soprattutto ai lunghi periodi e all’età anziana (l’omonimo pianeta è il più distante dal Sole e quindi ha l’orbita più ampia), che tra l’altro è curiosamente simile anche al dio sudamericano Viracocha, creatore e civilizzatore di pelle bianca, rappresentato talvolta androgino e sovente come un vecchio con un bastone in mano [22], strumento utile come unità di misura presso molte civiltà antiche, come indica l’origine della parola «canone» (inteso come misura), dal greco kanon, legato all’accadico kanu (= canna, bastone, stanga per misurare). Il verde della speranza e il verde della natura si annodano quindi naturalmente al bastone di Saturno, cioè al procedere del tempo come condizione necessaria per la realizzazione: il compimento di ciò che si desidera e quindi si spera di ottenere a livello personale, e il ritorno del verde primaverile a livello stagionale, sono necessariamente vincolati al tempo. Non a caso, in due testi reciprocamente lontani nello spazio e distanti fra loro circa mille anni, troviamo due metafore arboree molto simili: nei Vangeli cristiani la «parabola» del chicco di senapa che diventa germoglio, pianticella e infine pianta adulta (Marco, 4, 30-32); nell’I Ching, il famoso Libro dei Mutamenti cinese composto in ambito taoistico a partire dal 1000 a.C. e poi studiato e commentato da Confucio e dai suoi seguaci, il segno n. 53, Chien (lo Sviluppo Graduale) simbolizza, come riassume Richard Wilhelm, «l’albero sul monte [che] si sviluppa lentamente e in modo impercettibile. Esso si espande, dà ombra, e così influisce con la sua presenza sull’ambiente che lo circonda. L’albero è un esempio della forza attiva che migliora i costumi all’intorno coltivando costantemente la propria virtù» [23].
D’altra parte, c’è anche chi pensa che il verde, proprio perché così diffuso nelle campagne e nelle foreste, i due ambienti naturali che occupavano la maggior parte dei territori alle latitudini temperate fino a pochi secoli fa, e quindi ben presente alla mente degli esseri umani preistorici e protostorici, non fosse così importante per loro; viceversa, sarebbero stati proprio i due restanti colori della triade, il bianco e il rosso, a impressionare i nostri lontanissimi antenati, in quanto riconducibili a elementi in primo luogo biologici propri del corpo umano, espressioni della tensione tra vita e morte, tra eros e thanatos: il bianco del latte materno e dello sperma, il rosso del sangue mestruale e di quello che fuoriesce dalle ferite. Verosimilmente, il bianco colpiva l’occhio e la mente dell’uomo preistorico anche come colore delle ossa, associate alla morte: il bianco delle ossa in natura si vede su uno scheletro, parziale o integro, animale o umano; quindi forse nel mondo preistorico prevaleva questo significato del bianco anziché quello che rimanda alla luce e alla purezza (ma potremmo pensare anche ad un legame tra bianco e luce associato alla sclera dell’occhio, l’organo con cui riusciamo a vedere in presenza, appunto, di luce). Il rosso era il colore del sangue e quindi della vita, ma talvolta era usato per segnalare i tumuli di sepoltura (ad esempio in Sardegna e nell’area etrusca), perciò esprimeva un doppio significato, la vita e la morte [24]; in alcuni riti religiosi precristiani, poi, era con un sacrificio di sangue che si voleva placare la collera degli dèi o si credeva di nutrirli: nel caso di Tonatiuh (il Sole) venerato dagli Aztechi, il sangue umano da lui assorbito attraverso gli spazi celesti lo avrebbe alimentato, ritardando per quanto possibile la ciclica fine del mondo.
A prescindere dall’appartenenza a una determinata cultura o civiltà, il rosso è dunque il colore proprio del sangue, evoca le ferite, il pericolo e quindi suscita l’arresto: la fuoriuscita di sangue provoca sempre un istantaneo fermarsi dell’azione in chi si accorge di essa, una specie di allerta silenzioso, e a sua volta dev’essere fermata. Allo stesso modo, ci si arresta quando ci si imbatte nei fenomeni naturali rossi e pericolosi: il fuoco e la lava vulcanica, alcuni funghi velenosi e perciò vistosi. Secondo la tradizione ebraica tramandata dalla Bibbia, Mosè sul monte Horeb scorse un fuoco che incendiava un cespuglio di rovi senza consumarlo: di fronte alle fiamme rosse dovette arrestarsi, e vedendo questo strano fenomeno capì di trovarsi in un luogo sacro, cioè interessato da una teofania, nel quale poté sentire la voce di YHWH (Esodo, capitolo 3). In relazione all’arresto, al fermarsi, non a caso il rosso è utilizzato diffusamente in Occidente per i segnali di divieto e, altrove, per segnalare l’inizio di una zona particolare, non assimilabile al resto dello spazio abitato: con questo colore sono dipinti i torii, i tipici portali a due colonne del Giappone che marcano l’ingresso in un’area sacra caratterizzata da uno o più templi shintoistici [25]; in modo insieme simile e diverso, nell’impero cinese le famose lanterne rosse segnalavano la presenza di una «casa chiusa», un’area in un certo senso distinta da qualunque altra; non necessita di spiegazioni, poi, il concetto di spettacolo «a luci rosse», segnalato a sua volta con il bollino rosso del divieto agli spettatori minorenni.
Il colore complementare del rosso, il verde tipico della natura, della fertilità, della vita e quindi dell’espansione, è quindi in certi casi anche l’antagonista del rosso. Se il verde è fertilità ed espansione e il rosso è allarme ed arresto, in chiave simbolica e psicologica il verde che si espande è collegabile alla spontaneità benevola, all’estroversione quindi all’amicizia, all’amore, mentre il rosso è l’arresto del movimento e dell’espansione imposto dall’esterno, e infatti è così che è stato successivamente utilizzato dalla tecnologia umana per la segnaletica (i semafori, certi segnali stradali, l’on / off di alcuni oggetti elettrici, ecc.). Ma il rosso è da sempre simbolo anche della passione erotica, che può essere dannosa se eccessiva – quello che la tradizione cristiana chiama peccato di lussuria – e della collera (si dice popolarmente «vedere rosso per la rabbia»), due realtà non raramente collegate tra loro e con il sangue: si pensi ai cosiddetti omicidi passionali. In modo significativo, il rosso, colore degli eccessi rischiosi, nel nostro tricolore non è né nella posizione più vicina all’asta, né al centro, bensì è l’ultimo; tutto ciò può suggerire che gli eccessi erotici e la collera, ma anche l’eccesso di proibizioni, non vanno collocati al primo posto o al centro, cioè non bisogna lasciare che abbiano un ruolo dominante nel carattere della persona, altrimenti la conducono a un’interazione disordinata con il mondo; non a caso, gli antichi cinesi seguaci di Confucio consideravano la collera il più grave peccato (mentre nell’area cristiana il più grave è la superbia) perché espressione evidente della mancanza di autocontrollo.
Alla luce di questo excursus apparentemente non molto lineare, si comincia a intravedere la possibilità di guardare alla bandiera italiana come a un vero e proprio «simbolo» nell’accezione data a questo termine dal celebre storico delle religioni Mircea Eliade: un’espressione visibile di una rete di principii metafisici o «religiosi» nel senso etimologico dell’aggettivo, cioè di una realtà che riunisce insieme (in greco syn-ballo, syn-bulein), che lega insieme le cose (in latino re-ligeo) a vari livelli della realtà cosmica ed umana; qualcosa che rispecchia simultaneamente la natura esterna all’essere umano e le dinamiche basilari della psicofisiologia umana, rivelandosi sia un emblema storico dotato di significato politico nazionale, sia un simbolo universale che supera il significato ufficiale senza contraddirlo, dato che esso implica un riferimento all’unità e alla cooperazione fondata sulle giuste basi etico-morali. I tre colori in tal modo combinati richiamano quindi l’attenzione su determinate dinamiche e verità perenni, perciò valide a prescindere da ogni appartenenza etnica, da ogni orientamento politico (compreso il nazionalismo), da ogni specificità culturale e religiosa.
Per cominciare, vi si può riscontrare una fondata smentita a certe visioni del mondo ideologicamente condizionate, secondo cui la natura, anche e soprattutto nel senso di natura umana, sarebbe soltanto un costrutto socio-culturale senza alcun fondamento sovra-individuale, nient’altro che una narrazione collettiva elaborata e condizionata dalle diverse forme di civiltà umane, che di conseguenza renderebbe altrettanto relative e soggettive anche le sue espressioni più imprescindibili, basilari ed evidenti, come la percezione del bene e del male, la differenza sessuale e la pertinenza della maternità al genere femminile; genere che quindi potrebbe essere assunto autonomamente anche da chi femmina non è, o viceversa, sostituito con quello maschile da chi femmina è (la cosiddetta self-identification). La sequenza cromatica verde-bianco-rosso, viceversa, ci ricorda che dalla realtà e dalla sua autonomia nei confronti di qualsiasi elaborazione intellettuale non si scappa: in primo luogo c’è la natura (verde), che precede l’essere umano: nessuno oserebbe sostenere che sia nato prima l’uomo e poi il cosmo; dalla natura nascono gli esseri umani distinti per il rispettivo sesso, che nel caso maschile comprende l’emissione di liquido bianco (lo sperma) nel caso femminile di liquido rosso (il sangue mestruale): l’unione del maschile-bianco e del femminile-rosso dà vita ad un altro essere umano che fin dalla sua nascita, cioè ben prima del suo sviluppo sessuale, vive anch’esso grazie a una sostanza bianca, il latte materno, e a una rossa, il proprio sangue. In questo modo, la bandiera italiana rappresenta di per sé una sintesi, universalmente riconoscibile, dell’interazione fra i due sessi, della formazione della famiglia e del ruolo fondamentale della maternità. Non si tratta di retorica «di destra» sulla patria e sulla famiglia, né di «omotransfobia», ma di corrispondenze oggettive con realtà naturali stabilite fin dall’origine del cosmo e necessarie all’esistenza di ogni essere umano, compreso chi fa parte dei cosiddetti «nuovi modelli di famiglia» e chi li approva per convincimento ideologico o per interesse politico-finanziario.
Da questa prospettiva, l’iconografia dell’Italia come giovane matrona ammantata dei tre colori nazionali e dotata della corona turrita (simbolo dei Comuni), nonostante sia stata intrecciata a una certa retorica nazionalistica nell’Ottocento e nel primo Novecento, esprime più realtà di quanto possa sembrare. Teniamo presente il ruolo fondamentale per Roma della dea Giunone, sposa di Giove e quindi sovrana celeste, il cui nome latino, Iuno, rivela un’assonanza con il corrispondente etrusco Uni in ambito italico e – cosa che stranamente sembra ignorata da Georges Dumézil, almeno nel suo volume già citato La religione romana arcaica – con il termine Yoni in ambito induistico, che designa la vulva come luogo-principio femminile generativo. L’allegoria dell’Italia è sovente «giunonica», nel senso che unisce la formosità corporea all’atteggiamento battagliero, ma anche in un senso più letterale e meno metaforico (non sapremmo dire quanto riconosciuto dalla maggior parte dei pittori e illustratori del Risorgimento). Come scrive Dumézil, a differenza delle divinità romane maschili, «Giunone si trova riferita simultaneamente alle tre funzioni dell’antica ideologia indoeuropea: all’ambito della regalità sacra, a quello della forza guerresca, a quello della fecondità, e, riferita in termini formulari, da una titolatura attestante che i suoi sacerdoti e i suoi devoti la sapevano e la volevano trivalente»[26]: Regina, Seispes (o Sospita), Mater, ovvero Sovrana, Combattente e Madre, cioè i tre ruoli espressi dal bianco, dal rosso e dal verde. Da questo punto di vista, i tre simboli – Giunone, l’Italia allegorica e la bandiera tricolore – si rispecchiano l’uno nell’altro, esprimendo gli stessi tre temi in modo diverso, ma sempre sintetizzati in una sola immagine che è «femminile» ben al di là del genere grammaticale del suo nome.
In modo interessante, la stessa triplicità femminile si può ritrovare nella bandiera dell’Iran, nazione di matrice indoeuropea e perciò legata all’Italia da affinità etno-genetiche e linguistiche [27]. Nonostante l’islamizzazione della Persia avvenuta in epoca medievale, i tre colori iraniani – sebbene disposti orizzontalmente ed in modo tale da non implicare gli stessi rapporti semantici presenti nel tricolore italiano – possono rispecchiare il triplice nome dell’importante dea iranico-zoroastriana Anāhitā: Aradvi, Sūrā, Anāhitā, ovvero Umida, Forte e Immacolata [28]; in questo modo – nota ancora Dumézil – Anāhitā risulta una figura parallela a Giunone Mater Seispes Regina. La traduzione cromatica di entrambi i triplici nomi, l’iranico e il latino, sarebbe quindi Verde (fertile), Rossa (combattiva), Bianca (pura), con il verde legato all’umidità poiché l’acqua è necessaria alla crescita della vegetazione: il che si accorda con il significato ufficiale del verde iraniano, colore sacro dell’Islam e della crescita della nazione, il quale, insieme al bianco che simboleggia la pace e l’onestà e al rosso che allude al coraggio e al martirio, conferma la corrispondenza con il simbolismo cromatico delle tre funzioni indoeuropee (fertilità, autogoverno, difesa).
Alla figura giunonica dell’Italia se ne affiancava un’altra non meno diffusa e, purtroppo, fondata su una realtà ricorrente nella storia: la donna bruna piangente come una laica Mater Dolorosa per la morte dei suoi figli nelle guerre d’indipendenza o nelle battaglie della prima guerra mondiale. Ad esempio, in una cartolina dipinta nel 1915 da un’autrice, Adelina Zandrino, la donna simbolo di tutte coloro che hanno subito la perdita di un familiare o di un amato nei primi mesi della «Grande Guerra» fa addirittura un gesto sacerdotale che nel Cristianesimo cattolico e ortodosso è riservato agli uomini: solleva al cielo un calice d’oro che contiene il sangue dei caduti come fosse quello del Cristo, e intorno al calice si vede un alone di luce che potrebbe sembrare un’aura emanata dal calice stesso, se non è il Sole velato dalla nebbia e visibile in prospettiva alla stessa altezza del calice [29]; in questo modo, il calice luminoso fa pensare di nuovo al mitico Santo Graal, e dato il contesto di guerra, alla Terra Desolata, come se determinati elementi facessero parte di una rete di archetipi interconnessi che tende a ripresentarsi in determinate occasioni drammatiche, quasi a prescindere dalle distanze spazio-temporali e dovute al contesto storico.
Sul tricolore italiano osservato a partire dall’asta notiamo quindi in primo luogo il verde, cioè la natura, l’espansione, l’amore e la fecondità, tradizionalmente associati al principio femminile, con il rimando alle dee greco-romane Afrodite-Venere e Flora. Al centro il bianco, ossia la sovranità estesa al popolo, i cui gruppi sociali interagiscono muovendosi e trasmettendosi informazioni e denaro: queste caratteristiche fanno sì che al bianco (collegato a Zeus-Giove) possa associarsi anche un’altra divinità greco-romana, Ermes-Mercurio, preposto ai movimenti delle idee, delle cose e delle persone. Infine il rosso, cioè l’eccesso di passioni, il sangue e la guerra, alla quale si legano il principio maschile e il dio Marte.
La natura precede la presenza umana; il verde può rappresentare quindi anche la physis, l’insieme delle energie proprie della natura che si esprimono anche, ma ovviamente non soltanto, nel regno vegetale; essendo condizioni precedenti alla comparsa dell’essere umano, sono da esso indipendenti, mentre l’uomo, viceversa, è dipendente da loro, almeno dal punto di vista biologico (alcuni amano ricordare che siamo composti degli elementi chimici partoriti dalle stelle nell’«universo fertile», come lo ha definito il cosmologo gesuita George Coyne [30]). La verde physis eccede sempre l’individuo umano, come ci ricordano gli eventi atmosferici e le calamità naturali, da cui l’uomo può solo difendersi, ma non può controllarli o neutralizzarli, e tuttavia l’uomo è figlio di questa stessa natura: questa doppia valenza della natura è evidente in ambito induistico rispettivamente nelle deità femminili di Parvāti e di Kalì, e in Europa fu percepita ed espressa soprattutto da autori del Romanticismo come Johann Wolfgang Goethe e Giacomo Leopardi [31]: condizione necessaria dell’esistenza, madre sempre fertile, bellezza multiforme, ma anche ambiente pericoloso e talvolta potenza distruttrice. Al bianco può quindi associarsi il logos, il pensiero-parola per mezzo del quale gli esseri umani comunicano dando vita a tutti i mezzi di trasmissione della conoscenza (memorie orali e scritte, arte, tecnologia…); il rosso esprime indubbiamente il pathos: oltre che appartenente alla natura esterna all’uomo, dove è caratteristico di svariati fiori e frutti, il rosso è il colore di tutti gli eccitamenti psicofisici visibili sul volto umano: la fatica, la vergogna, l’entusiasmo, il riso, la collera.
Osservando con questa attenzione le tre sezioni della bandiera italiana, ci si ricorda che non bisogna eccedere in nessuna delle tre potenzialità da esse rappresentate: un eccesso di aderenza al verde della physis e della natura selvatica, farebbe regredire l’essere umano ad uno stadio animalesco, immorale, rendendolo un cosiddetto «selvaggio»; dando eccessiva importanza al bianco del logos, ci si limiterebbe alla sola attività del pensiero e della parola, e quindi alla trasmissione delle informazioni in modo intellettualistico o puramente utilitaristico, sconnesso dalla dimensione emotivo-sentimentale e spirituale, trasformando la personalità umana in qualcosa di simile ad un programma informatico; seguendo troppo il rosso del pathos, si diventerebbe prede dell’emotività propria e altrui, eccessivamente empatici e quindi privi di qualsiasi padronanza di se stessi, persone «isteriche» nel senso popolare, e non psicopatologico, del termine. Gli ambiti rappresentati dai tre colori necessitano dunque di essere gestiti ciascuno secondo le sue caratteristiche: la natura-physis (verde) si può coltivare e, in un certo senso, utilizzare (ad esempio il legno per le costruzioni), ma non controllare e nemmeno depredare o distruggere (altrimenti, prima o poi, subiremmo anche noi gli effetti di questo sfruttamento, e forse abbiamo già cominciato a subirli); il pensiero-logos (bianco) si può istruire ed applicare all’ambito materiale a condizione di non perdere di vista la physis (verde) e il pathos (rosso), ovvero le dinamiche biologico-fisiche ed emotivo-sentimentali; infine, il pathos (rosso) dev’essere riconosciuto come uno dei più evidenti segnali dell’attività dell’interiorità umana, ovvero dell’anima, ma necessita di educazione e di controllo per evitare che si manifesti come un’energia che disorienta, che annebbia la ragione e nei casi estremi distrugge, agendo quindi in contrasto, anziché in sinergia, con la natura-physis e la ragione-logos.
Riprendendo in considerazione il simbolismo del verde come principio femminile e del rosso come principio maschile, nell’interposizione del bianco fra i due colori si possono cogliere due ulteriori insegnamenti. Intanto notiamo che il femminile (Venere e Flora) e il maschile (Marte) sono allo stesso tempo connessi e distanziati per mezzo del bianco; il bianco si rivela dunque campo di un doppio movimento, centripeto e centrifugo: la comunicazione reciproca di pensieri e parole (Mercurio) che contribuisce ad avvicinare i due generi sessuali e ad unire i componenti della coppia, e, allo stesso tempo, il mantenimento in taluni casi di un’opportuna distanza, che deriva dalle rispettive differenze intrinseche e, insieme, contribuisce a sottolinearle [32], anche perché esse sono una componente fondamentale della reciproca attrazione: l’incontro ravvicinato fra i due sessi non deve essere troppo brusco o prevaricatore (le molestie o le violenze sessuali), altrimenti provoca ostilità; un concetto espresso ad esempio anche da due segni dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti cinese già menzionato: il n. 53, Chien (lo Sviluppo Graduale), e il n. 57, Sun (la Mitezza, il Vento, il Penetrante), commentati così dal traduttore Richard Wilhelm: «Un influsso aggressivo non ha mai effetto durevole», e «Un’azione non preparata provoca solo spavento e suscita repulsione» [33].
Inoltre, l’attributo della sovranità conferita al bianco, di cui si è già detto, ci riporta a ricollegare il bianco alla presenza divina (Giove) e quindi a notare un altro aspetto interessante della posizione dei settori verde e rosso nei confronti del bianco: entrambi sono collocati ad eguale distanza dal bianco, e tuttavia sono posti sul suo stesso livello ed hanno le stesse misure in altezza e larghezza: tutto ciò suggerisce l’uguaglianza tra uomo e donna davanti al Divino, da intendere non certo come indifferenza per le rispettive specificità psicofisiche o addirittura come interscambiabilità dell’«identità di genere» – come oggi la intendono persino alcuni aderenti a certe confessioni protestanti del Cristianesimo, fraintendendo completamente la frase di Paolo di Tarso «Non c’è più uomo né donna poiché tutti voi siete una cosa sola in Cristo Gesù» (Lettera ai Galati, 3, 28) [34] – bensì nel senso che nessuno dei due è stato stabilito in un ruolo superiore all’altro: un millennio prima di san Paolo, l’autore ebraico del Genesi (1, 26-27) affermava «Dio creò l’essere umano (adam) a propria immagine, maschio (ish) e femmina (ishà) lo creò». Di conseguenza, la sovranità del popolo può essere espressa da entrambi i generi sessuali: nessuno dei due deve esserne escluso (come invece è accaduto sovente nella storia, ad esempio con il mancato diritto di voto alle donne fino al 1946 in Italia e, cosa meno ricordata, fino al 1975 in Svizzera); parimenti, la sovranità divina può essere da entrambi riconosciuta: si ha quindi un legame tra il bianco e la pietas, nella forma della devozione individuale o del culto pubblico, a prescindere dalla religione di riferimento (viene quindi in mente la questione dell’esclusione delle donne dalla gerarchia sacerdotale nel Cristianesimo cattolico ed ortodosso).
Parallelamente, la lettura del tricolore italiano a partire dal verde esprime anche il ciclo delle stagioni, forse meno difficile da riconoscere. In primis abbiamo la primavera espressa dal verde, quindi l’estate dal bianco e l’autunno dal rosso, dato che in autunno il fogliame di molte piante assume questo colore; l’inverno sembrerebbe escluso in quanto stagione di letargo e di sterilità, di morte apparente (per dirlo in modo semplicistico) della natura – e infatti esso potrebbe corrispondere al colore complementare ed opposto del bianco, il nero, che sarebbe presente nello stesso spazio occupato dal bianco se volgessimo al negativo la bandiera italiana – ma se si rilegge la bandiera in senso contrario, cioè partendo dal rosso e tornando verso il verde (il che corrisponde a percorrere la seconda parte del ciclo stagionale), troviamo l’inverno esattamente dove sarebbe naturale trovarlo, cioè tra l’autunno passato (rosso) e la nuova primavera (verde), dove sta anche il bianco della neve. Notiamo quindi di nuovo una doppia valenza del bianco: estiva e invernale. L’associazione dell’estate con il bianco, piuttosto che con il giallo del Sole, potrebbe stupire, ma non più di tanto se si pensa che il bianco è luce assoluta e quindi assenza di ombra: una situazione che a livello quotidiano si verifica soltanto nel momento del mezzogiorno, cioè in quella che tra le ore della giornata rispecchia la piena estate fra le stagioni dell’anno (così come il rosso dell’autunno corrisponde, nella giornata, al rosso del Sole al tramonto, e il nero dell’inverno alla mezzanotte, il momento di buio assoluto).
Da un’attenta lettura visiva del tricolore italiano emerge dunque un ordine articolato su molteplici livelli della realtà – ambientale, biologico, psicofisico, relazionale, religioso … – che funge anche da monito affinché le interazioni tra gli esseri umani, e di questi con il mondo naturale, non degenerino in modo tale da far precipitare gli uni e l’altro nel disastro. In primo luogo c’è il verde, cioè la natura-amore che è anche verità, oggettività del reale (si nota incidentalmente l’assonanza tra le parole: veritas, viridis) in base alla quale devono prendersi le decisioni da parte del popolo organizzato in una comunità sovrana e costituita di componenti interagenti (il bianco), la quale, quando decide senza basarsi sui valori rappresentati dal verde, rischia di cadere negli eccessi (rosso) che possono sfociare nell’intralcio violento degli uni sugli altri, nei conflitti, nella guerra civile o internazionale; in termini mitici, si tratta del progressivo declino verso l’Età del Ferro secondo la cronologia di Esiodo, durante la quale predomina Marte, cioè la guerra, con il rosso dei metalli fusi per forgiare le armi e del sangue che esse fanno scorrere. Se, viceversa, la bandiera viene letta a partire dal rosso, la serie cromatica descrive il ritorno alla concordia e al fondamento partendo da una situazione di caos, cioè la seconda fase dello stesso movimento storico-sociale: la risalita o la ricostruzione susseguente alla catastrofe. Dal rosso dell’eccesso, della guerra o dell’arresto ci si avvia a ricostituire la comunità sovrana (il bianco) per ristabilire una legge e un ordine sociale basandosi sulla verità, sull’amore, sulla natura (verde): si riparte dalle basi fondamentali per ogni essere umano. A questo punto si nota anche una ulteriore valenza simbolica del bianco al centro: funge da mediatore fra gli opposti complementari (verde e rosso) e da principio divino che li collega con sé e tra loro, ma è anche la sintesi dei sette colori dello spettro luminoso (arcobaleno): questo suggerisce che la comunità del popolo sovrano, se è organizzata giustamente – cioè basata sui significati del verde – pur essendo composta da persone di diversi «colori politici» dovrebbe tendere ad una cooperazione fra le parti anziché frammentata negli obiettivi, spesso ottusamente auto-interessati, di ciascuna fazione. Il 7 gennaio 1947, lo storico Luigi Salvatorelli, cofondatore del Partito d’Azione, nel suo discorso per i 150 anni dall’istituzione del tricolore italiano, affermò:
Ogni disputa è possibile, lecita, utile, purché nei punti essenziali, nei momenti supremi, si avverta il limite oltre il quale la contesa offende la patria, si intuisca l’interesse nazionale che occorre rispettare. «Haec est Italia, Diis sacra»: sacra agli Dei, e prima agli uomini, suoi figli.
Ce ne fossero oggi, di politici «progressisti» in grado di pronunciare esortazioni simili (con o senza la citazione da Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 46).
Quanto detto fin qui ci sembra non poco. Come si è cercato di mostrare, i significati e i riferimenti metastorici dei colori della bandiera italiana, così come i rapporti fra di essi, risultano validi universalmente poiché sono propri degli elementi naturali ai quali quei colori rimandano, quindi indipendenti dai significati storici e ideologico-politici attribuiti loro in determinati contesti. Alla luce di tutto ciò che è emerso in questa disamina, è possibile sostenere che nel tricolore italiano si può ravvisare una traduzione cromatica del dharma, la norma [35] cosmico-sociale, dinamica ma immutabile, interna ed esterna all’individuo umano, così denominata nell’Induismo e corrispondente alla maat (verità, giustizia, ordine, equilibrio) dell’antico Egitto. Utilizzando un altro termine sanscrito, la bandiera italiana può essere guardata e meditata da qualunque abitante umano del pianeta Terra come un mandāla, di per sé laico ma in accordo con le basi delle maggiori religioni, in quanto sintesi dinamica dei principii fondamentali, naturali e sociali, per le giuste interazioni fra gli esseri umani e tra questi e la natura. Meminisse iuvabit: sarà bene ricordarsene, soprattutto in circostanze storico-geopolitiche instabili come quelle presenti, nelle quali, sotto altre bandiere, s’intrecciano la farsa e la tragedia.
Note:
19 – Vedi ad es. Antonio Marazzi, Antropologia della visione, Roma, Carocci, 2003, citato in Marco Belpoliti, Dimmi come guardi, ti dirò chi sei, “La Stampa” 14 aprile 2003.
20 – Intervento a Splendori d’Astrologia: tra Mito, Numi ed Inni planetari, video-discussione su Pagine Filosofali, 2 aprile 2023, https://www.youtube.com/watch?v=3eYmsVCtwpo. La caratterizzazione del maschile così come risulta dalle parole dell’autrice, fa pensare anche alla tradizionale iconografia ermetico-alchimica, dove troviamo il principio maschile come Re Rosso, talvolta dotato di un volto che si fonde con la figura del Sole raggiante (di fronte al quale c’è il principio femminile come Regina Bianca, il cui viso è sovente quasi un tutt’uno con la Luna piena, emanante luce diafana).
21 – Cfr. ad es. Il grande libro dei Santi, a cura di C. Leonardi, A. Riccardi, G. Zarri, vol. II, Cinisello Balsamo (MI), Edizioni San Paolo, 1998, pp. 1112-1115; Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri (a cura di), Ildegarda di Bingen, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2000 (collana «Scrittori di Dio», 32), p. 84, parafrasa viriditas con «vigore della virtù».
22 – Cfr. Piervittorio Formichetti e Marco Maculotti, Il mistero degli Incas: le costellazioni oscure e i «diluvi» celesti, Axis Mundi 9 luglio 2017, https://marcomaculottiblog.wordpress.com/2017/07/09/il-mistero-degli-incas-lecostellazioni-oscure-e-i-diluvi-celesti/.
23 – I Ching. Il Libro dei Mutamenti, a cura di Richard Wilhelm, ed. or. Pechino, 1921, trad. it. Milano, Adelphi, 1991, con prefazione di Carl Gustav Jung (1949), pp. 240 e 644. L’esagramma 53 dell’I Ching contiene anche un’altra analogia interessante con la parabola del chicco di senapa ricordata dai Vangeli: in questa si parla degli uccelli che trovano riparo fra i rami della pianta diventata alta e ampia; nel segno cinese si parla dell’oca selvatica (metafora della personalità umana) che si avvicina all’albero, trova un ramo adatto su cui posarsi e di lì spicca il volo verso le vette e le nubi.
24 – Vedi ad es. Isabella Abbiati e Grazia Soldati (a cura di), I Mabinogion, Roma, Venexia Editrice, 2021, video-presentazione con Marco Maculotti, canale Youtube Axis Mundi, 21 giugno 2023, https://www.youtube.com/watch?v=F-Q5F6RA8RI.
25 – Vedi ad es. Piervittorio Formichetti, «La natura ha dipinto se stessa»: Nishida Kitarō e le radici metafisiche dell’arte, 2a parte, https://www.paginefilosofali.it/la-natura-ha-dipinto-se-stessa-nishida-kitaro-e-le-radici-metafisiche-dellarte-2-parte-piervittorio-formichetti/.
26 – Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 267 e 270.
27 – Vedi ad es. Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi, 1996, p. 214. Rimandiamo i lettori anche alle belle considerazioni del giornalista iraniano Hamid Masoumi Nejad sulla stima di molti Iraniani per la lingua e la cultura italiana, citate in Maarten van Aalderen, Il bello dell’Italia. Il Bel Paese visto dai corrispondenti della stampa estera, Roma, Albeggi, 2015.
28 – Su Anāhitā vedi ad es. Albert Olmstead, L’impero persiano. Politica e religione, arte e scienza, guerra e vita dell’antica terra dei «Re dei re» (ed. or. History of Persian Empire, Chicago, 1948), tr. it. Roma, Newton & Compton, 1997, pp. 309-310: «I Greci [la] identificavano, in genere, con la propria Artemide […], è vista dai suoi devoti come una splendida giovane, possente, in piena fioritura […]. Ahura-Mazda ha creato per lei quattro destrieri da cocchio: il Vento, la Pioggia, le Nuvole, il Nevischio. Tenendo strette le redini, la dea discende sul suo cocchio, i suoi cavalli schiacciano chiunque sia nemico del fedele […]. È lei a preparare il seme dell’uomo e il frutto del grembo della donna pronta a procreare. Assicura a tutte le donne una felice gestazione e pone nelle loro mammelle la giusta quantità di latte, nel momento più appropriato. Dà salute all’uomo e aumenta i suoi canali d’acqua, i suoi campi e gli armenti, i beni e le terre».
29 – Visibile ad esempio al link https://www.mentelocale.it/genova/articoli/77487/-feste-natali-2018-nei-musei-civici-genova-dal-presepe-mostre.htm.
30 – Al convegno internazionale Dio oggi: con Lui o senza di Lui cambia tutto, a cura del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Roma, dicembre 2009, trasmesso in differita da TV 2000.
31 – Vedi ad es. Piervittorio Formichetti, “Il ginocchio di Artemide”: uno spettacolo sulla Natura, divina e terribile, https://www.paginefilosofali.it/il-ginocchio-di-artemide-uno-spettacolo-sulla-natura-divina-e-terribile-piervittorio-formichetti/.
32 – Per contrasto, vengono in mente recenti decisioni, quantomeno discutibili, di rendere «unisex» i gabinetti degli studenti in alcune scuole superiori.
33 – I Ching. Il Libro dei Mutamenti, ed. cit., pp. 239 e 254.
34 – La frase di san Paolo concerne l’irrilevanza, introdotta da Gesù, delle numerose distinzioni sociali e religioso-legali vigenti fra gli Ebrei nei confronti degli altri popoli, sia fra uomini e donne all’interno del «popolo eletto», di cui era sostanziata la Legge ebraica: «Tutti voi siete infatti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, siete rivestiti di Lui: non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete una sola cosa in Cristo Gesù», e ciò è confermato nella sua successiva Lettera ai Colossesi (3, 9-11): «Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni, e siete rivestiti del nuovo […] ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o non circoncisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo tutto in tutti».
35 – A parere di chi scrive, la parola latina norma può essere proprio una forma alterata dalla pronuncia latina del sanscrito dharma, il cui significato è pressoché analogo, come nel caso del flamen romano in rapporto al brahman vedico-indiano: cfr. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 8, 84, 132 n., 194, 496 n.; Pio Filippani-Ronconi, L’Induismo, Roma, Newton & Compton, 1994, p. 15.
(fine)
Piervittorio Formichetti