L’eterno dualismo tra filosofia orientale e quella occidentale – Rosa

La parola, la memoria ed il risveglio interiore – Luigi Mancuso
<<Bisogna dunque osare dire che l’uomo terreno è un Dio mortale e che il Dio celeste è un uomo immortale. Attraverso questi due, il mondo e l’uomo, tutte le cose sono, ma tutto è stato generato dall’Uno>>[i]. Queste parole mettono in luce una concezione di pensiero che fa parte delle radici ancestrali dell’Europa: l’uomo è un Dio, ma lo ha dimenticato. Stesso concetto viene affrontato dalla Sapienza indiana: <<chi non sia già un Dio non adori un Dio>>, na ádevo devam arcayet[ii].
L’umano e il Divino sono dunque la medesima identità solo in stati diversi e possiamo dire che la manifestazione divina nel mondo degli uomini segue determinate forme che si riscontrano nella natura biologica umana, da Bios, come vita, esistenza. Andando alla nostra penisola, il nome stesso di Roma potrebbe significare “urlo” accostandosi alla radice sanscrita ru-[iii] e nella Tradizione nordico-germanica la parola Runa, ovvero Mistero, deriverebbe dalla parola germanica *run e, a sua volta, dalla radice protoindoeuropea *rewh. La prima parola, quella germanica, è connessa al sussurrare dei sacri Misteri, e nel secondo caso, all’urlo. Basti pensare anche alla parola latina rumor in tal senso. Ma perché le rune e il nome di Roma si rispecchiano a vicenda sia nel silenzio che nell’urlo? Cosa si manifesta tramite l’urlo? La forza del Divino erompe tramite il respiro che preannuncia una nuova vita. È fatto noto che, al momento della nascita, il neonato deve gridare per poter vivere. L’aria entra nei polmoni, che si espandono per la prima volta, e dal dolore dell’aria che entra nel corpo si manifesta la volontà della vita attraverso il grido. Quindi Roma “nasce”, non tanto come città materiale, ma come presenza manifesta della forza degli Dèi, letteralmente dall’ inspirazione, l’inspirazione del Re-sacerdote Romolo che durante il rito di fondazione pronunciò il Nome Segreto di Roma, che diventa quindi anche il grido della nascita come segnale della affermazione della venuta dell’Urbe al mondo. Dato che il Divino e l’uomo sono interconnessi in un rapporto continuo, nella cosmogonia della Tradizione indiana, alcuni versi della Bhagavadgita affermano questo: <<Io mi affido alla Persona Primordiale da cui promana l’antico impulso creatore.>>[iv]. Chi è questa Persona Primordiale? Altri non è che l’Uomo cosmico il Purusha, l’uomo illuminato dal fuoco cosmico, da notare l’analogia tra la radice pur e la parola greca pyr, ovvero fuoco, che si ritrova anche in italiano, puro. L’uomo puro che, secondo quanto tramandato dagli inni del RgVeda, venne asperso dagli Dèi come vittima sacrificale e dalle sue parti smembrate si ebbe la nascita del mondo e delle caste della società indù[v]. Attraverso il padroneggiare del respiro e della parola di potenza quale strumento, i mantra, l’uomo riesce a riagganciarsi al principio assoluto per poter prendere consapevolezza di ciò che è sempre stato. I Saggi dell’India Vedica, i Rshi, ottenevano la “rivelazione” non nel significato che noi moderni attribuiamo alla Rivelazione cristiana, ma al contrario la rivelazione (âkâshâni, shruti) dei Rshi corrisponde alla esposizione di ciò che è stato “visto”, al Sapiente che ha conosciuto tramite i suoi occhi una dimensione superindividuale e super umana[vi]. I Rshi sono anche i Cantori ispirati dalla Divinità e che quindi hanno trasmesso, attraverso la poesia sacra, l’insegnamento divino: << [la Parola] la trovarono rifugiata entro i Veggenti (Rshi) la presero e la distribuirono in molti luoghi. Essa intonano i Sette Cantori.>>[vii]
Possiamo a questo punto notare anche come poi la Tradizione romana e quella nordico-germanica siano molto più simili di quello che sembra all’apparenza. Nell’Hávamál viene narrato di come Odino abbia sacrificato sé stesso per Sé stesso per ottenere La Sapienza iniziatica della Rune:
<<So che pendetti
Dall’albero ventoso nove notti intere,
Di lancia ferito
E dato a Odino
[io] stesso a me stesso,
Da quell’albero
Che nessuno sa
Da quali radici provenga.>>[viii]
Ma non è tutto, perché in un passo successivo del Runetal parla così Odino:
<< Con pane non mi ristorarono
Né con corni [mi dissetarono]
Scrutai giù,
raccolsi le Rune,
gridando [le] presi,
caddi nuovamente di là.>>[ix]
Odino grida prima di aver raccolto da terra le sacre Rune per poi cadere dall’Albero sacro, segno manifesto che lui ha conquistato la Sapienza dei Nove carmi sacri. Nel mondo romano abbiamo un esempio analogo anche se poco conosciuto, ovvero la vicenda di Hercules che insegna al popolo di Evandro l’uso delle lettere. Plutarco, nel suo Questioni Romane per rispondere alla domanda di come mai esista un altare consacrato a Hercules e alle Muse, dà una risposta apparentemente senza alcun significato:
<<È perché Ercole ha insegnato al popolo di Evandro l’uso delle lettere, come ha documentato Giuba? E questa azione è stata ritenuta nobile da parte degli uomini che insegnavano ai loro amici e parenti. Ci è voluto molto tempo prima che iniziassero a insegnare a pagamento e il primo ad aprire una scuola fu Spurio Carvilio, un liberto di Carvilio, che fu il primo a divorziare da sua moglie.>>[x]
A mio parere è palese che Plutarco in questo passo, quando parla dell’insegnamento delle lettere trasmesse da Hercules al popolo del buon Re Evandro, non si riferisce al “mero” insegnamento letterario o scolastico, ma a qualcosa di più profondo: alla trasmissione iniziatica delle lettere sacre, che solo i meritevoli dovevano apprendere. Non è causale che il nome Evandro derivi da Eu-andros, ovvero “uomo buono”, non in senso morale, quanto di dignità spirituale e non è altrettanto casuale che il padre di Evandro è proprio Mercurio, divinità che i Romani hanno sempre accostato a Wodanaz-Odino, mentre la madre del buon Re altri non sarebbe che la ninfa Carmenta, che, come ci ricorda Plutarco, è la ninfa del carmen,[xi] del canto sacro, proprio come i carmi che Odino seppe conquistare. Secondo quanto riportato da Tacito, i Germani adorano Mercurio (Wodanaz-Odino) sopra tutti gli altri Dèi[xii], ma la preziosa testimonianza dello storico romano non termina qui, poiché viene anche detto che Hercules sia giunto presso i Germani e che questi, pronti al combattimento, siano soliti <<innalzare canti alla gloria del primo fra gli eroi.>>[xiii]. Poi, continua:
<<I Germani hanno anche altri carmi, la cui intonazione chiamano “bardito”; con essi accendono gli animi alla battaglia, […] quel canto che non sembra fatto di voci, ma sembra l’espressione di una suprema armonia di coraggio e di valore.>>[xiv]
Il “bardito” dei Germani non è in questo caso un carme composto da parole, ma solo da suoni che venivano eseguiti piano piano per poi ascendere in un crescendo sempre più alto fino ad atterrire i nemici e anche gli stessi uomini che lo intonano. A questo punto, secondo quanto ci hanno tramandato le fonti antiche, non sembra affatto peregrino affermare che Hercules altro non sia che Odino nella sua forma eroica e guerriera, mentre la Divinità che i Romani associano a Mercurio è invece l’aspetto misterico e sapienziale del Re degli Dèi del nord Europa. Odino è infatti anche il Dio della Guerra che trascina i suoi guerrieri in battaglia tramite una forza mistica-magica e dirompente. Tornando al mondo greco-romano, cosa c’entrano le Muse con Hercules? In questo caso sono assolutamente da respingere le interpretazioni moderne di diversi studiosi che bollano quanto scritto da Plutarco come una sorta di fantasioso gioco umanistico ante litteram, come se gli antichi nulla sapessero e nulla conoscessero della loro stessa spiritualità. È fatto noto che nella mitologia classica le Muse non sono altro che le figlie di Zeus e Mnemosine, la Memoria, e nate dopo nove notti, come Odino appeso per nove notti all’Albero Yggdrasill. Il comune substrato indoeuropeo, che unisce il nord Europa con la Grecia e l’Italia, si fa ancora più forte in maniera evidentissima, poiché la fonte da cui beve Odino è la fonte di Mímir, che trova una similitudine con la parola latina memor e con Mnemosine stessa. Le Muse, poi, corrispondenti alla poesia, al canto e alla musica, sono anche loro legate ad aspetti sapienziali. La musica nelle società antiche aveva il valore sacro di rinnovamento del ricordo, che fluiva attraverso le note del cantore. Omero è cieco, “Ο-μη-ορων” (O-me-oron: colui che non vede), perché lui percepisce un mondo ulteriore non accessibile ai mortali, allo stesso modo di Odino che è privo di un occhio, ma dotato di una Vista superiore. Odino è anche Dio della poesia sacra, gli Scaldi, i cantori delle corti dei re di Norvegia, erano ispirati da questo Nume. Molto simili alla figura degli Aedi in Grecia, ispirati a loro volta da Apollo e dalle Muse.
Il messaggio che ci viene trasmesso da tutte queste tradizioni altro non è che il recuperare la memoria degli Avi attraverso una palingenesi interiore, di discesa (Morte) e di ascesa (Rinascita). Mnemosine è la memoria che ci ricollega con l’Assoluto, quindi non si parla di una memoria come la intendiamo noi moderni, ma è invece un qualcosa che scaturisce non dall’intelligenza mentale, ma da un altro tipo di intelligenza sottile che trova il suo centro proprio nel cuore. Da Plutarco apprendiamo poi che gli antichi Egizi visualizzavano la Natura dell’Universo attraverso la forma del triangolo[xv], proprio come Platone ne La Repubblica. A tal proposito, fa notare Guénon, Il Re del Mondo è colui che ha il dominio sui tre Mondi, tre stati dell’esistenza. Allo stesso modo nelle civiltà tradizionali la base del triangolo è il principio ricettivo, mentre la punta è l’Assoluto, che può essere raggiunto ricongiungendo la base attraverso i due lati del triangolo. In sanscrito, per designare questo principio si usano i termini di Brahmâtmâ quale “supporto delle anime nello Spirito di Dio”, Mahâtmâ, il “rappresentante dell’Anima universale” e il Mahânga, “simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo”. Questi ultimi due elementi sono i coadiutori del Brahmâtmâ, dove la base del triangolo è costituito dal Mahânga e il Mahâtmâ è ciò che unisce il vertice alla base[xvi].
Un principio molto simile ricorre nella “Triade plotiniana”, dove si ha in sequenza l’Uno, lo Spirito e l’Anima[xvii] e nella nostra Tradizione italica con le due Triadi: la prima, quella arcaica con Giove, Marte e Quirino, la seconda, di derivazione etrusca, con Giove, Minerva e Giunone. Giunone-Era, prende il posto di Quirino quale principio ricettivo dell’Assoluto e in quanto Anima di Giove. Ma Minerva e Marte sono “nel mezzo”, tra le due Divinità Maggiori. Minerva sembra ricoprire le stesse funzioni del manas degli indù, ovvero la facoltà mentale, il pensiero armato, che mette in relazione le facoltà di sensazione e di azione[xviii]. Quello che Aristotele chiamava l’intelletto puro che ha per oggetto dei principi universali. Analoga funzione viene ricoperta da Marte e dal suo corrispettivo indù Mangala, divinità dal colore rosso che tiene in mano il fiore di loto. Marte stesso è stato generato tramite il fiore grazie a Giunone[xix] e perché viene usato proprio il simbolismo del fiore? Perché il fiore dimora nel cuore. La dimora di Brahma nella quale risiede un piccolo loto, che è più piccolo di un chicco di riso o di senape, ma è al contempo più grande di tutta la terra e dell’atmosfera. Conseguendo una sua realizzazione spirituale, l’uomo si innalza dalla terra come un fiore, l’apertura iniziatica simboleggiata dal fiore di loto, la cui corolla si apre sopra uno stelo verticale che ha attraversato e sorpassato le acque[xx]. Una simbologia arcaica, questa. Nelle pitture rupestri della Val Camonica è raffigurata la celebre Rosa camuna, uno stelo che si sviluppa in vari petali con nove puntini. Alle volte la Rosa camuna ha i petali ricurvi che tendono a formare una Svastica, in altre occasioni, invece, sono raffigurati guerrieri armati attorno a questo fiore. Una linea orizzontale è il nostro ciclo vitale, ma che può essere attraversata da una linea verticale e il Risveglio si trova nel punto di incontro tra queste due linee, nel centro. La Sapienza norrena e germanica ci ricorda infatti che Odino dopo la sua iniziazione:
<<Così presi a fiorire
E ad esser saggio
E a crescere e prosperare
Di verbo in verbo in me
Verbo sgorgava,
Di azione in azione in me
Azione sgorgava.>>[xxi]
La forma del triangolo quale Natura dell’Universo si manifesta anche in quella che De Giorgio chiamava “il segreto della trasfigurazione perenne” attraverso il Fuoco di Vesta, poiché il Fuoco sempiterno di Roma è il segreto della Sapienza tradizionale conservato da coloro che ne sono i depositari affinché possa essere trasmesso. La stessa fiamma che arde sugli altari degli Dèi ha una forma triangolare, un triangolo igneo il cui vertice è un punto oscillante, mentre la base è il focolare stesso[xxii]. Le Vestali di Roma sono sei di numero, tre che formano il del triangolo del Cosmo, che si riflette attraverso le altre tre Vestali, le quali formano il triangolo “infero” non nel senso cristiano di infernale, ma di infero come “basso”, ma volendo citare la celeberrima massima ermetica <<tutto ciò che è in alto è come tutto ciò che in basso>>, quella che a noi può apparire come una dimensione “diversa” da quella celeste è in verità costituita dalla stessa identica natura, <<come i vertici di due triangoli opposti designanti due mondi analoghi in senso inverso nello stesso rapporto dell’essere reale e del suo riflesso nell’acqua il quale ne è l’immagine capovolta.>>[xxiii]. Scavando ancora più in profondità si può dire che Vita e Morte siano lo stesso identico Principio, non può esserci espirazione se prima non c’è inspirazione, Odino non può conquistare le Rune senza prima morire sull’Asse del Mondo. Alto e basso sono uguali, e questa stessa simbologia viene ripresa nella fossa del Mundus scavata durante l’atto della fondazione di Roma, con la sua triplice simbologia atta a mettere in comunicazione il piano celeste, terrestre e infero. Ritorna ancora una volta la simbologia del fuoco, acceso su sulla pietra per celebrare i riti, mediatore tra il livello terrestre e quello aereo, l’Asse del Mondo attraversata verticalmente dal Fuoco, dal raggio del Sole quale Intelligenza divina e centro stesso del Cosmo, poiché <<Il mondo divino e perfettamente bello che vediamo è tenuto assieme, dal sommo della volta celeste fino al limite estremo della Terra, dalla provvidenza indefettibile del Dio, esiste increato dall’eternità ed è eterno nell’avvenire, […] La sommità è “il Raggio del Sole”, in un grado per così dir superiore dal mondo intelligibile e in un senso ancora più elevato dal Re universale che di tutte le cose è centro.>>[xxiv]
Come poi fa notare Dumézil, proprio perché la dimensione infera è la medesima di quella celeste notiamo che divinità ctonie come Vulcano hanno anche tra i vari epiteti quello di Iovialis[xxv], poiché Vulcano stesso non è nient’altro che un Giove infero come Plutone, non meno luminoso di quello che governa il Cielo. Nella nostra Tradizione greco-romana, tra i simboli cosmici della regalità solare, l’Aquila è il simbolo per eccellenza di Giove, che stringe tra gli artigli le folgori rosse del Dio, mentre le folgori bianche appartengono a Minerva, quelle nere sono di Vulcano[xxvi]. Tale simbologia alchemica del Nero del Bianco e del Rosso si riscontra nel Buddhismo Vajrayna, che letteralmente significa “Via del Fulmine” o “Via del Diamante”, i due significati sono speculari perché simboleggia come l’Uomo debba elevarsi per fare in modo che il suo spirito diventi luminoso come il fuoco della folgore e duro con il diamante. In sostanza si deve creare interiormente un diamante di fuoco, un diamante rosso, ovvero un rubino ed è quindi la Rubedo[xxvii]. Quando un italiano in un’epoca di materialismo come la nostra, ricerca, anche in buona fede, delle possibilità di elevazione spirituale nell’induismo, nel Buddhismo o nello Zen, a mio parere si sta allontanando da quella Via agli Dèi della nostra terra, perché ogni popolo ha ottenuto la stessa scintilla dell’Intelletto divino, ma ogni via spirituale è strutturata in modo tale da adattarsi alle esigenze psico-fisiche delle varie popolazioni. È quindi naturale ritenere che la nostra Via verso gli Dèi è proprio sotto i nostri occhi, perché meglio si adatta in via potenziale alle facoltà fisiche e mentali di un italiano. Le statue degli Dèi continuano a manifestare una Fiamma eterna. L’iconografia stessa di Giove rappresenta il Dio assiso sul suo Trono, per simboleggiare la Potenza Suprema che regge l’Universo in una stabilità imperitura. Il petto del Dio è scoperto, a voler simboleggiare la sua vera natura nuda, di fronte alle intelligenze divine, mentre la parte inferiore del Suo corpo è coperta a voler simboleggiare l’inconoscibile per gli uomini[xxviii]. Occorre quindi riunire ogni cosa al Tutto e non limitarlo alla parte. Un insegnamento che per i Greci era stato reso noto dallo stesso Parmenide, poiché la Dea da cui il filosofo di Elea ottenne l’illuminazione divina gli trasmise il più sacro degli insegnamenti: il riunire tutto ciò che è relativo con il centro che non può essere scosso da niente e da nessuno per congiungere l’Alto con il Basso. Bisogna ricordare e prendere di nuovo in mano il filo occulto della nostra Civiltà Madre. Esiste una continuità, una linea che non si è mai interrotta che ci unisce indissolubilmente al nostro passato, un filo che però deve essere riscoperto nel senso che deve essere ricordato e riaccordato. Per fare ciò dobbiamo attuare costantemente una lotta senza quartiere a tutte le nostre debolezze, vincere il combattimento tra le forze Uraniche e quelle telluriche che trascinano l’uomo verso la sua dimensione più bassa. In questa fase di decadenza la nuova Età dell’Oro apparterrà solo a coloro i quali sapranno scavare nella terra per far uscire Saturno, il Dio che si è nascosto in attesa della rinascita spirituale di noi Romano-Italiani. Occorre conseguire quello che nel Buddhismo Mahāyāna è chiamato bodhi-citta, il Pensiero di Illuminazione, la Memoria del Risveglio. La luce aurea di Saturno, il quale ha la stessa radice *Sat– del Satya-Yuga, l’Età dell’Oro, della Tradizione Indù, dove Sat è anche la luce dell’Intelletto purissimo che rende l’uomo un Uomo di Fuoco. La Luce intelligibile, l’Essere puro. Il nostro compito sarà quello di far brillare ancora una volta la luce della nostra civiltà. Perché <<Noi non siamo degli animali. E anche se avessimo il volto di pellirossa o di persiani o di polinesiani, noi siamo Romani perché abbiamo, prima di nascere, eletto di essere Romani. Altrimenti non saremmo nati Romani. E non parlo di Roma come “città”, ma dico Roma come “realtà spirituale”.>>[xxix]
Note:
[i] Corpus Hermeticum, X, 25.
[ii] J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Edizioni Mediterranee 2006, dal saggio introduttivo di Pio Filippani Ronconi, p. 16.
[iii] P. F. Ronconi, relazione presso l’Ass. Fons Perennis di Roma.
[iv] Bhagavadgita, XV, 3-4.
[vi] J. Evola, Lo Yoga della Potenza, p. 29.
[vii] RgVeda, X, 71, 3.
[viii] Hávamál, CXXXVIII.
[ix] Ibidem, CXXXIX.
[x] Plutarco, Questioni Romane, 59.
[xi] Ibidem, 56.
[xii] Tacito, Germania, 9.
[xiv] Ibidem, 3.
[xv] Plutarco, Iside e Osiride, 56.
[xvi] R. Guénon, The Lord of the world, Tradition, p. 18.
[xvii] Plotino, Enneadi, II, 9, 1. <<Se dunque il Bene (Uno) non deriva da altro, né in altro, né è in combinazione, necessariamente non ci sarà nulla sopra di lui. Non bisogna dunque risalire ad altri principi, ma bisogna mettere innanzi tutto il Bene, in secondo luogo lo Spirito e l’Intelligente primitivo e, dopo lo Spirito, l’Anima. Questo è l’ordine conforme a natura, né c’è da porre null’altro, né di più, né di meno, nella Realtà Intelligibile.>>
[xviii] Fra i tanmâtra (i principi sottili e incorporei) e i bhûta (principi sensibili e corporei) esistono undici facoltà che procedono dalla coscienza individuale. Di queste undici facoltà cinque sono di azione e cinque di sensazione, l’undicesima parte è, appunto il Manas, che agisce nel centro tra le facoltà di azione e di sensazione. Si rimanda alla lettura dello studio di Guénon “L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta”.
[xix] Ovidio, Fasti, V, 229-258.
[xx] J. Evola, La Tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee Roma 2006, p. 99.
[xxi] Hávamál, CXLI.
[xxii] G. De Giorgio, La Tradizione Romana, Edizioni Mediterranee Roma 1989, p. 249.
[xxiii] Ibidem, p. 239.
[xxiv] Giuliano Augusto, Inno a Helios Re, 132 c.
[xxv] G. Dumézil, Archaic roman religion, The Johnson Hopkins University press Baltimore and London 1966, p. 685-686.
[xxvi] Gruppo di Ur, Introduzione alla Magia, Vol. I, Edizioni Mediterranee, Roma 1971, p. 126.
[xxvii] M. Serrano, The Resurrection of the Hero, The 55 Club 2015, p. 86.
[xxviii] Gruppo di Ur, Introduzione alla Magia, Vol. I, p. 126.
[xxix] P. F. Ronconi, relazione presso l’Ass. Fons Perennis di Roma.
Luigi Mancuso