
Platone, il grande incompreso – Andrea Cecchetto
Alfred N. Whitehead, forse esagerando un po’ (ma neanche tanto), affermò che «Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone». Eppure, secondo me, Platone non è ancora stato compreso appieno, e molte delle sue tesi sono state fraintese o interpretate superficialmente, alla lettera, laddove egli si esprimeva spesso tramite simboli ed analogie. Platone ci ha lasciato decine e decine di libri. Ma egli non ha messo per iscritto tutto il suo sapere. In primo luogo perché – come spiega lui stesso nella Lettera VII – alcune verità non sono trasmissibili:
“Questo ho da dire su tutti quelli che […] sostengono di conoscere l’oggetto delle mie indagini, sia per averlo ascoltato da me sia da altri sia per averlo scoperto da se stessi: non è possibile […] che costoro abbiano capito niente dell’argomento. Certamente non esiste un mio scritto sul tema né mai esisterà. Infatti non può essere enunciato in nessun modo come gli altri insegnamenti; ma in seguito a una lunga frequentazione del suo oggetto, e dal conviverci, all’improvviso, come una luce che si accende da una scintilla di fuoco, compare nell’anima e si nutre ormai da se stesso” (Platone; Lettera VII, 341b-d).
Ma anche per quanto riguarda ciò che è invece trasmissibile, molti suoi insegnamenti venivano impartiti oralmente, e solo ai suoi allievi più vicini e avanzati – fra i quali evidentemente non vi era Aristotele. Mi riferisco alle cosiddette “dottrine non scritte”. Questi insegnamenti esoterici usciranno allo scoperto solo sei secoli più tardi, con Plotino. Ed infatti, nelle Enneadi plotiniane molti dubbi, aporie e questioni lasciate irrisolte da Platone troveranno soluzione in un quadro ben più coerente (il problema, semmai, è che Plotino è oggi ancor meno compreso di Platone). Descrivere in poche righe il sistema di Plotino è piuttosto arduo; ci basti sapere che egli poneva a fondamento logico del mondo fisico tre princìpi, i quali – partendo dal più universale ed inclusivo – generano la realtà fenomenica. Essi sono nell’ordine: 1) L’Uno, cioè l’Assoluto, che Platone chiamava il Bene o il Vero; 2) L’Intelligenza o Spirito; 3) L’Anima universale. Questi 3 princìpi si chiamano ipostasi (dal greco hypò = sotto, e stàsis = stare), giacché rappresentano appunto il fondamento nascosto della realtà fenomenica, ossia del: 4) Mondo fisico, sensibile e corporeo. Questa quadripartizione del reale non deve essere fraintesa: la Realtà è in sé indivisa! Si tratta di una struttura puramente logica; le manifestazioni, via via sempre più limitate e condizionate, devono essere infine tutte ricondotte all’Uno-Assoluto, unica realtà.
Ne ho parlato solamente affinché la citazione sotto riportata non sia del tutto oscura e inintelligibile; in essa, molto modestamente Plotino attribuisce a Platone la vera paternità delle proprie dottrine:
“[…] Platone era ben consapevole del fatto che dal Bene deriva l’Intelligenza, e dall’Intelligenza l’Anima. Per tale motivo i nostri ragionamenti non sono né recenti né novità, ma di vecchia data, se pure a quel tempo erano espressi in forma involuta” (Plotino; Enneadi, V, 1, 8).
Una volta chiarito questo possiamo passare in rassegna alcune delle tematiche riguardo le quali, secondo me, Platone è stato frainteso.
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La prima riguarda il presunto dualismo di Platone. Egli, si dice solitamente, distingue la realtà in due “campi”: da un lato vi è l’Iperuranio, il mondo vero ed immutabile dell’essere e delle Idee spirituali; dall’altro lato, vi è il mondo delle cose effimere, della materia e dei fenomeni in divenire, il quale è solo un oscuro “riflesso” del primo, una specie di brutta copia, un’imitazione mal riuscita. Ora, Platone si serviva spesso di miti per esprimere le sue dottrine; nel Timeo egli parla effettivamente di un Demiurgo che crea il mondo sensibile plasmando la materia (chōra), servendosi a tale scopo delle Idee sovrasensibili come modello. Ma si tratta solo di un simbolismo! La materia, il Demiurgo, le Idee stesse non vanno considerati come elementi distinti, bensì come aspetti dialettici ed indivisibili del Bene, ossia dell’Uno-assoluto. Tale Bene genera, comprende e al contempo trascende ogni ente, ogni dualità, e persino l’essenza, ovvero l’Essere:
“[…] le cose conoscibili ricevono dal bene non solo la facoltà di essere conosciute, ma anche l’esistenza e l’essenza, quantunque il bene non sia l’essenza, ma per dignità e potenza la trascenda” (Platone; Repubblica, VI, 509b).
Il vero dualismo, estraneo alla mentalità unitaria/organicistica degli antichi, verrà tematizzato forse soltanto nel XVII secolo con Cartesio, il quale farà la distinzione ontologica fra realtà materiale (res extensa) e realtà noetica (res cogitans). Platone viene erroneamente considerato una sorta di Cartesio ante litteram, il che non è. Non dovremmo quindi, nel caso di Platone, parlare di dualismo, ma al massimo di dualità, di relazione dialettica interna all’Uno indiviso. Si tratta insomma di una distinzione gnoseologica, non ontologica.
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Un secondo fraintendimento, strettamente legato al primo, riguarda la natura delle Idee, o meglio, problematizza la stessa esistenza di tali Idee, e quindi di un mondo “altro”. Ma ancora, non si è ben compreso. Le Idee platoniche non sono enti concreti, non sono sostanze in senso aristotelico, non sono cose, oggetti o elementi ectoplasmatici posti da qualche parte “nel cielo”; si tratta di possibilità principiali, archetipali, sulle quali viene intessuta la realtà sensibile. Cito Burckhardt:
“Gli argomenti di taluni filosofi contro l’esistenza delle «idee» di Platone cadono nel nulla quando si comprende che queste «idee» o archetipi non hanno «esistenza», come scrive Ibn ’Arabî, cioè non hanno la natura di sostanze distinte, e che costituiscono soltanto delle possibilità inerenti all’«Intelletto», e inerenti in senso principiale all’Essenza divina […]. Le idee generali, in quanto forme mentali, sono evidentemente soltanto pure astrazioni; ma tale costatazione non scalfisce minimamente gli archetipi o «idee» di Platone, dato che queste sono semplicemente possibilità o disposizioni intellettuali, possibilità che le «astrazioni» presuppongono e senza le quali non avrebbero alcuna verità intrinseca. Negare le «essenze immutabili», fonte di ogni conoscenza relativa, equivarrebbe a negare lo spazio col pretesto che non vi è forma spaziale. Difatti gli archetipi non si manifestano mai come tali […]. Quando si cerca di afferrarli, indietreggiano davanti alla visione distintiva” (Titus Burckhardt; Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, p. 58).
In un contesto indiviso, ogni Idea è diversa dall’altra, però ciascuna di esse è “il Tutto”, giacché, in quella che abbiamo chiarito essere una strutturazione puramente logica del reale, esse si pongono a un livello – l’Intelligenza o Spirito – nel quale non abbiamo ancora introdotto la categoria della Qualità (determinante dell’Anima universale), ma solo la Relazione e la Quantità. Esse non sono quindi formalmente distinte l’una dall’altra. Se vogliamo sono il corrispettivo, nella categoria della Qualità, di ciò che i numeri sono nella Quantità. Ed infatti, nella loro manifestazione diventeranno poi le forme immanenti di Aristotele.
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Un terzo fraintendimento – nel quale è caduto persino Aristotele – riguarda l’attribuzione a Platone di una presunta creazione nel tempo, proprio come nella Genesi biblica. Il cosmo, secondo tale concezione, non sarebbe sempre esistito, ma avrebbe avuto un inizio ben preciso. Ma l’azione del Demiurgo platonico è invece, come negli altri casi, una funzione logica, atemporale. La generazione di cui parla il Timeo non avviene nel tempo, ma nell’eternità. La causalità in questione non è di tipo temporale, e simbolizza semplicemente la totale dipendenza del mondo fisico dal suo fondamento logico. Lo hanno ben compreso Plotino, Proclo e tutti i Neoplatonici. Cito al riguardo Falcon e Dodds:
“Nel Timeo Platone annuncia un discorso sulla natura che comincia con l’origine del mondo fisico […]. Alla domanda se il mondo fisico sia generato, Proclo risponde affermativamente. Questo non significa tuttavia che esso abbia inizio nel tempo: non c’è infatti un momento in cui il mondo fisico non sia esistito. Detto altrimenti, il mondo fisico è per Proclo eterno e generato […]. Questa lettura è accettata dalle maggiori autorità filosofiche del mondo tardoantico, tra cui si contano non solo il maestro di Proclo, Siriano, ma anche Giamblico, Porfirio e Plotino” (Andrea Falcon; Filosofia della natura. Tratto da: Filosofia tardoantica. A cura di Riccardo Chiaradonna, pp. 165-166).
“Per Plotino e Proclo la vera causalità è una relazione atemporale di dipendenza tra esseri; il termine “creazione” è solo una metafora per esprimere questa dipendenza […]. Applicando questi princìpi alla relazione tra l’assoluto e il mondo, si può dire che il mondo sia eterno, sebbene causato da Dio” (Eric R. Dodds; Neoplatonismo. Passi scelti, p. 17).
[Relazione – quella «tra l’assoluto e il mondo» citata da Dodds – del tutto simbolica, sia chiaro… L’Assoluto “è” irrelato].
D’altro canto, se si legge bene il seguente passo di Platone, la cosa si chiarisce («ciò che sempre si genera», dice infatti):
“A mio avviso si devono innanzitutto distinguere queste cose: che cos’è ciò che sempre è e non ha nascita, e che cos’è ciò che sempre si genera, e che mai non è?” (Platone; Timeo, 27d-28a).
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Il quarto fraintendimento riguarda la materia che, da quanto si dice, per Platone è un principio fondamentale, increato. È proprio da questa presunta esistenza indipendente della materia che si parla di dualismo materia/spirito. Ma anche qui si rendono necessari dei chiarimenti. La chōra è stata tradotta con “materia”, ma non corrisponde affatto a ciò che intendiamo noi con tale termine (cioè, per capirci, la massa). Abbiamo detto che, nella struttura logica del reale, Platone distingue un mondo puramente logico (cioè le 3 ipostasi plotiniane) e un mondo fenomenico. Ma oltre a queste due specie, come le chiama lui, egli ne aggiunge una terza che consiste nello spazio continuo, indifferenziato, ossia nelle potenzialità di accoglimento proprie dello spazio vuoto – da intendersi, anche qui, in quanto categoria logica:
“Stando così le cose, dobbiamo riconoscere che vi è una prima specie che è sempre allo stesso modo, immune da generazione e da corruzione, che non riceve in sé altro da altrove, e che essa stessa non procede in altro, invisibile e soprattutto impercettibile, ed è questa che l’intelligenza ottenne in sorte di osservare. La seconda specie ha lo stesso nome ed è simile a quella, è percettibile, generata, sempre in movimento, e nasce in un certo luogo e in quel luogo di nuovo perisce, e questa può essere colta dall’opinione mediante la sensazione. Vi è infine una terza specie, che sempre esiste ed è quella dello spazio: essa non riceve in sé corruzione, offre una sede a tutte le cose che hanno una nascita, […] ed affermiamo che è necessario che tutto ciò che è si trovi in qualche luogo e occupi uno spazio, e che ciò che non è in terra, né in cielo, non è nulla” (Platone; Timeo, 51e-52b).
La materia platonica, insomma, non è un principio fondamentale, assoluto, ma bensì un altro aspetto nella struttura logica del reale, e anch’essa deriva dal Bene (ossia è immanente all’Infinito, come tutto). Essa consiste nel chaos, termine che non significa soltanto disordine, ma anche più propriamente spazio aperto, voragine, abisso, possibilità indistinta, informe, indeterminata. Dunque, la materia è il chaos, e il Demiurgo non è un dio-persona, ma il logos, la razionalità; dalla loro interazione nasce il kosmos, cioè l’ordine, il mondo regolato da leggi logiche. Ma, ripeto, non si tratta di dualismo assoluto. Logos e chaos non sono princìpi fondamentali, ma bensì aspetti dialettici che ci sono necessari per desumere logicamente il cosmo a partire dall’Uno-assoluto e incondizionato. Potremmo dire, nel contesto simbolico dell’“auto-contemplazione divina”, che il logos corrisponde al “pensatore”; il chaos coincide con un “pensiero vuoto”; il cosmo, infine, indica un “pensiero determinato”, ossia il “pensato”.
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Passiamo al quinto e ultimo punto, il quale si ricollega comunque ai precedenti. Nel seguente passo, Platone ci parla – per bocca di Socrate – della seconda navigazione, la quale consegue idealmente alla prima, ovvero al metodo d’indagine proprio dei filosofi presocratici (chiamati anche fisici); con questo suo nuovo metodo, Platone contempla tramite la ragione e la logica le possibili cause che si celano dietro i fenomeni:
“[…] vuoi tu […] che io ti illustri la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca della vera causa? […]. Dopo che […] mi fui ritirato dall’indagine sui fenomeni naturali, […] mi parve bene ricorrere ai ragionamenti e, rifugiandomi in essi, osservare la verità del reale […]. Dunque è per questa strada che io mi sono mosso: e, ponendo di volta in volta a fondamento la ragione che io giudico la più salda, tutto quello che a me pare si accordi con essa, lo pongo come vero […], e ciò che mi pare non sia in accordo, come non vero” (Platone; Fedone, 99c-100a).
Ora, anche se non ha mai utilizzato tale termine, il fondatore della metafisica è considerato Aristotele. Essa, però, nasce concettualmente già con questo passo di Platone; la metafisica, infatti, è propriamente questo: l’applicazione – nello studio del reale – d’una logica rigorosa, a prescindere da eventuali riscontri sensibili o empirici. E fin qui ci siamo; il problema nasce quando il passo riportato viene interpretato come l’invenzione, da parte di Platone, di un altro mondo, di una realtà staccata da quella fisica, del cosmo intelligibile opposto a quello sensibile. Si tratta del solito fraintendimento. In verità egli dice però semplicemente che per indagare le cause dei fenomeni esperibili dobbiamo postularne una struttura logica. Non afferma niente di così diverso dalla scienza moderna e contemporanea, che parla di costanti, di leggi fisiche, di struttura matematica a fondamento del cosmo.
Distinguere fra realtà sensibile e realtà intelligibile è – per Platone – solo un espediente descrittivo, una categorizzazione consapevole fatta allo scopo di mettere ordine nelle idee, una strutturazione puramente gnoseologica, non ontologica. Platone lo sa bene che la Realtà è in sé assolutamente indivisa e indivisibile, come lo sapevano i presocratici. Questi ultimi non erano dei fisici nell’accezione attuale del termine; essi non pensavano – come i moderni materialisti – che la realtà fosse esclusivamente costituita da cose sensibili o esperibili. Semplicemente non avevano tematizzato tale strutturazione logica, e indicavano con il termine Physis (Natura) la Realtà in sé, intesa nella sua indivisibilità:
“La «fisica» presocratica è una vera ontologia e, addirittura, include una teologia naturale […]. Parlare di materialità, come molti fanno, delle physis dei Presocratici, non è corretto […]. Con terminologia moderna potremmo dire che per i Presocratici la physis è la totalità del reale considerato nella sua struttura (ontologica), ossia nel suo ordine e nelle sue leggi con tutto ciò che queste implicano” (Giovanni Reale; Storia della filosofia antica, Vol. V, p. 120 e 210).
Ancora siamo convinti che Platone, per primo, abbia parlato di cose che, pur considerate reali, non sono da noi esperibili? Faremmo bene a pensare allora alle concezioni dette “primitive” quali lo sciamanismo e l’animismo, ma anche a tutte le tradizioni mistico-religiose orientali e occidentali. Guénon sostiene che la Tradizione primordiale si fondesse su una metafisica pura. Non so se questa Tradizione sia esistita, però penso che l’uomo abbia iniziato a interagire con l’essenza viva della Sofia, priva da ogni schematismo teoretico, molto prima di quanto si pensi, e la considero una nota di merito.
Andrea Cecchetto