Simbologie indoeuropee – Luigi Mancuso
“…c’è chi ha visto Dio in una luce, c’è chi lo ha scorto in una spada o nei cerchi di una rosa. Io vidi una Ruota altissima, che non stava avanti ai miei occhi né dietro né ai lati, ma in ogni parte a un tempo”
(J. L. Borges, La scrittura del Dio)
In questa ora di deterioramento del nostro mondo, l’unica possibilità che ci resta è ritornare alla nostra Origine quale conforto dell’anima europea nello stravolgimento dell’epoca attuale. Ma tale conforto non può e non deve essere un attimo di consolazione fine a sé stesso, ma, al contrario, il punto di partenza per una nuova fase della storia d’Europa. Per fare ciò non si potrebbe non guardare al Nord e alla civiltà che è scaturita dall’Urheimat fisica e spirituale della nostra storia. Intorno al 13.000 a.C. i ghiacciai stavano iniziando a ritirarsi dall’Europa. Ciò permise agli uomini del nord di stabilirsi nel Baltico meridionale. Le migrazioni dei popoli indoeuropei sono da considerarsi originate da una serie di spostamenti di culture preistoriche, come la cultura nordica, delle anfore globulari, della ceramica cordata e delle asce da combattimento originarie dell’area compresa tra il Reno e la Vistola, ed estesa a Nord fino alla latitudine di Oslo. Un esame attento delle lingue indoeuropee permette di individuare una serie di termini comuni quali quello dell’orso, del faggio, del castoro, del salmone, della quercia, rimandano irrimediabilmente a un ambiente e a una terra settentrionale. Particolarmente significativi sono termini quali quelli del faggio, della betulla, della quercia e del salice che ci indicano una zona molto estesa con un clima più temperato a sud. Autori come Romualdi e Mircea Eliade, propendono quindi, in base a questi termini sopra descritti, nell’individuare l’antica patria indoeuropea in una zona dell’Europa compresa tra il fiume Weser e la Vistola, che si estende a est a nord del Mar Nero, dato che i salmoni non hanno mai nuotato in quelle acque, né tantomeno nel Mediterraneo, fino ai Carpazi e al Caucaso[i]. Anche se forse si potrebbe affermare che quest’ultima estensione caucasica dell’Urheimat individuata da Eliade faccia già parte di un’espansione indoeuropea avvenuta in secondo luogo dallo spostamento dei popoli che avrebbero dato vita alla cultura kurganica e che erano migrati verso sud-est dalla loro sede ancestrale. La cultura nordica proseguì la sua avanzata verso la Russia meridionale nel territorio dei cacciatori ugro-finni. Queste spinte verso la Russia sono sempre state negate dalla archeologia sovietica, che vedeva nell’Urheimat indoeuropea una sorta di mito della narrazione capitalista[ii]. Altri termini che ci aiutano a circoscrivere la patria dei nostri avi sono proprio le parole “sale” e “aratro”. Secondo quanto scritto da Giuliano Bonfante questi termini sono presenti nel gruppo linguistico europeo, ma gli stessi due termini sono però totalmente assenti nel gruppo linguistico Indo-iranico[iii]. È probabile quindi che gli indo-iranici, spostandosi verso sud e muovendosi in territori prevalentemente montuosi abbiano dimenticato l’uso dell’agricoltura e del sale, forse nell’arco di una generazione, dato che i genitori di ogni famiglia non poterono trasmettere in un ambiente totalmente nuovo le tecniche agricole che avevano ereditato a loro volta. Per questa ragione la patria originaria degli indoeuropei non poteva che essere l’Europa e i popoli del gruppo indo-iranico si sono spostati verso sud, in Iran, e, verso est, in India, evitando il Mar Caspio e il Mar Nero se finirono col perdere l’uso del sale. Gli iranici si insediarono nell’omonimo altopiano attraversando prima i passi montani del Caucaso e gli indiani penetrarono poi nel nord dell’India attraverso l’Iran e l’Afghanistan[iv]. Intorno all’anno 900 a.C. i Persiani sono identificabili nei pressi del lago di Urmia, in Azerbaigian, e da lì mossero verso sud seguendo il popolo dei Medi, anch’esso indoeuropeo[v]. Possiamo solo immaginare quanta meravigliosa speranza abbiamo provato i nostri progenitori quando videro il nuovo Sole dell’Europa far arretrare piano piano i ghiacci dell’inverno. Un inverno che, come insegnano i carmi germanici, preludeva al Ragnarok.
<<Sale il mare in tempesta sino al cielo,
le terre inghiottite, l’aria è fatta gelida,
masse di neve porta l’aspro vento,
frena la pioggia la Ruota del Fato.>>
(Hyndluljòth, 44)
E, dopo la Morte degli Dèi, ecco che tornava dagli inferi oscuri di Hel il bellissimo Baldr, Dio della Luce, per dare nuova vita al mondo[vi]. Questo mito era già accaduto nella realtà storica millenni prima della Profezia della Vǫlva. La rinascita del mondo sotto il segno della Svastika era iniziata. Sempre secondo il Romualdi, il più antico esemplare di Svastika è stato rinvenuto su un vaso globulare in Polonia[vii]. Sappiamo anche che esistevano esemplari di Svastika ritrovati in Ucraina e nello specifico nella città di Mezin. I reperti, statuette a forma di uccello realizzati intagliando l’avorio delle zanne di mammut, presentano incisa sul ventre o sulle ali la croce uncinata. Sono datati intorno al 10.000 a.C[viii]. Dalla loro patria nordica, gli indoeuropei, popolo che chiamava sé stesso con il termine Aryos,[ix] i Nobili, i biondi hari, gli alti guerrieri del nord, in maniera inspiegabile ai profani inizia, la sua primavera sacra raggiungendo le coste dell’Europa bagnate dall’Atlantico, da una parte, e dall’altra arriva fino in India e in Cina. I biondi hari erano maestri nell’arte della guerra, specialmente nell’uso del cavallo in battaglia. Il loro simbolo caratteristico era l’ascia-martello, arma strettamente connessa al Dio della folgore e del tuono. Zeus, Giove, Indra, Thor, hanno tutti la capacità di scagliare la folgore. Questo pantheon uranico, che vede nel potere del fulmine e nella sua potenza il simbolo di Divinità sovrane e guerriere è indice della attitudine combattiva di questi popoli. Non è con il numero di grandi eserciti che gli indoeuropei si sono imposti. Il merito fu soprattutto della dura tempra di questi uomini del settentrione, dotati di una volontà di ferro e di abitudini semplici e guerriere, che, spostandosi in piccole aristocrazie ben organizzate, riescono a imporre la loro supremazia in quasi tutte le terre che hanno conquistato. Si tende ad attribuire l’addomesticamento del cavallo tra gli indoeuropei intorno al tardo quinto millennio a.C[x]. proprio tra le steppe a nord del Mar Nero e del Mar Caspio. Ma sappiamo in verità che l’addomesticamento del cavallo presso queste popolazioni è molto più antico. Le due specie di cavallo quali l’equus robustus e l’equus Nehringii sono entrambe <<autoctone dell’Europa neolitica, già i cacciatori paleolitici del Solutrense inseguivano le mandrie di cavalli selvatici e nella cultura megalitica nordica, durante l’epoca delle tombe del corridore, si attesta la presenza del cavallo domestico: il cranio di un cavallo trafitto con un pugnale di selce trovato in Scania (Svezia meridionale) ci offre un’antica testimonianza del sacrificio di un cavallo indoeuropeo.>>[xi]. Impossibile non paragonare questo arcaico sacrificio del cavallo con quello compiuto in Roma antica durante l’october equus, oppure al rito vedico dello Aśvamedha. Gli indoeuropei e in particolar modo gli indo-iranici svilupparono poi una certa abilità nell’arte equestre. In Italia l’addomesticamento del cavallo fu discontinuo, poiché poco adatto, soprattutto in guerra, a un territorio frastagliato come quello della nostra penisola. L’arte equestre nella nostra penisola rimase limitata all’Italia settentrionale durante il medio e tardo bronzo[xii].

Questo spiegherebbe anche come mai il cuore pulsante dell’esercito romano fu sempre la fanteria, almeno fino al VI secolo d.C., sebbene si possa rintracciare nelle riforme militari dell’Augusto Gallieno un primo potenziamento della cavalleria in seno alle legioni. E questo spiegherebbe anche perché le corse dei cavalli in Roma antica furono sempre gare di carri, come gli equirria, ciò rimanda inevitabilmente a una concezione del cavallo concepito più come animale da tiro. Anche se non mancarono “eccezioni” in tal senso. La cavalleria aveva una sua tradizione e una certa importanza in Roma arcaica. Da Plutarco sappiamo che a costituire una sorta di corpo d’élite di cavalleria del rex vennero creati da Romolo i Celeres per poi venire sciolti da Numa. Il mito che vuole la cavalleria romana agli inizi della sua storia come una sorta di “fanteria montata” è smentito dallo stesso Dionigi di Alicarnasso, che riporta come al lago Regillo i Dioscuri abbiano guidato una carica di cavalleria e quindi solo in caso di necessità il cavaliere romano poteva essere impiegato come fante. Tra le tradizioni più importanti della cavalleria romana è da ricordare il Lusus o Ludus Troiae. Si trattava probabilmente di una prova di carattere iniziatico connesso anche al funerale del Re dove, secondo quanto riportato da Cassio Dione, i figli del patriziato dovevano dimostrare la loro abilità come cavalieri[xiii]. Tale cerimonia, derivante forse dal mondo etrusco, prende il nome di “Troia” probabilmente dall’innesto del celebre mito greco in Etruria. La celebrazione del Lusus Troiae trova una forte corrispondenza tra il rito compiuto dai giovani equites e i Salii. Tale collegamento è da considerare in virtù non solo della trabea, la veste indossata sia dai Salii che dagli equites, ma anche della natura guerriera della cavalleria, fondata da Romolo figlio di Marte, e dei Salii “sacerdoti danzanti” del Dio della guerra. I riti dei Salii incarnano quindi, come per il Lusus Troiae, una iniziazione di tipo virile e quindi solare. Non a caso i due agonia, termine collegato ai riti saliari, di dicembre-gennaio e marzo-maggio, simboleggiano da una parte la venerazione generativa del Sol Indiges, ovvero l’antenato comune associato a Enea, e l’altro la generazione dei nuovi cittadini nell’iniziazione guerriera.
La lotta spirituale che vede l’arrivo dei Latini in Italia riecheggia nella mitologia romana. Prima di Enea, di Evandro, di Hercules, l’Italia era il regno di divinità silvane come Fauno e del gigante Caco. Un nuovo mondo, una nuova terra da conquistare. Si fa viva la volontà di voler tracciare un limite sacro nelle foreste del Lazio abitate da forze caotiche della natura da porre sotto il principio ordinatore della legge di una comunità[xiv]. È così che in questa Italia primordiale sorge nel panorama mitico la figura di Hercules quale uccisore delle forze infere, incarnate da Caco figlio di Vulcano, che lo renderanno liberatore degli Arcadi di Evandro residenti sul Palatino. Facendo un paragone con la Tradizione Indù, una simile simbologia si può notare nel Ramayana, narrante, appunto, le gesta dell’Eroe Rama che affronta la foresta abitata da demoni e questa lotta potrebbe tranquillamente rimandare, come nel caso dei Latini, all’invasione degli Arya nel nord dell’India e gli scontri con le popolazioni autoctone. I popoli di stirpe e costumi indoeuropei giungono, ovviamente, anche in Italia. Questo ramo staccatosi dalla patria ancestrale, imparentato con i Celti e i Germani, caratterizzato da una popolazione di origine nordica, partì dal Danubio e giunse in Italia attraverso i passi più bassi delle Alpi orientali[xv]. Sto parlando in questo caso della cultura terramaricola, che insieme alla cultura di Villanova indica l’entrata degli italici indoeuropei nella nostra penisola[xvi]. La cultura di terramare è nota per aver edificato villaggi palafitticoli nell’alta Italia che, nella forma, sembrano proprio rievocare gli accampamenti romani prima ancora dell’esistenza di Roma. Caratterizzati da un cardo e da un decumano che si incrociavano ad angolo retto, questi villaggi richiama lo stile di costruzione ordinato che fu proprio della “Roma quadrata”. Le due vie principali. Non sarebbe affatto peregrino affermare che gli indoeuropei della cultura di terramare siano gli antenati dei Romani penetranti in Italia intorno al XIV secolo a.C. Ma è anche per il culto dei morti che la cultura di terramare merita attenzione. Un suo tratto caratteristico è quello della arsione dei cadaveri, le cui ceneri venivano poste in delle anfore. Questa concezione dell’uguaglianza del defunto nel morte e nella stessa caducità della vita di fronte al Fato si ritrova nel pensiero romano espresso dagli immortali versi di Orazio: <<siamo polvere e ombra>>[xvii]. Questa concezione della vita e della morte fa vivere l’uomo indoeuropeo nella certezza che ogni sua azione rientri nell’Ordine stesso degli Dèi e ciò lo fa sentire membro di una stirpe che si perpetua nel tempo generazione dopo generazione e così ogni rischio e perdita sono nullificate nella reintegrazione del Tutto da cui l’uomo proviene e ritorna[xviii]. Un simile atteggiamento austero nella sepoltura si rivedrà a Roma a partire dalla seconda metà del VI a.C. fino a metà del IV secolo a.C. Con la nascita della Res Publica, i cittadini romani iniziano da un punto di vista religioso, linguistico e culturale a rigettare ogni forma di sfarzo nelle onoranze funebri e a sviluppare quel senso romano di austera gravitas e di rusticitas che caratterizzerà per i secoli a venire il tipo ideale di civis romanus. Come fa notare il Devoto la società romana muta in questo frangente storico proprio perché <<Questa ruralità si manifesta soprattutto nel senso della metafora; dunque nella elaborazione di un materiale che ha già assunto la sua veste definitiva latina […] Essa rappresenta il periodo successivo alla brillante vita cittadina, quando la reazione antietrusca ha portato o riportato al potere le classi che più si appoggiavano alla campagna; e quando l’inaridirsi delle relazioni commerciali con la Campania ha fatto sì che al di fuori dei campi poche risorse restassero per gli abitanti di Roma.>>[xix]. Poi, la lingua latina attua anche una <<epurazione di fronte agli elementi stranieri più prossimi; non ha solo alterato energicamente il proprio aspetto esterno, la propria struttura fonetica; ma ha avuto anche questo rivolgimento di natura “costruttiva”, che consiste nell’arricchimento per i Romani di allora (e nella possibilità di riconoscerli per noi) degli ideali più o meno forzatamente rustici dell’ambiente fra i secoli V e IV.>>[xx]. Ma non solo. Come ci ricorda Scaligero:<<La lingua di ogni popolo rappresenta la simbologia fonetica e grafica della sua anima e del suo patrimonio di cultura: ma in essa può essere altresì, allo stato potenziale, la forza della Tradizione.>>[xxi]. Proprio perché la lingua è portatrice di una determinata visione del mondo, possiamo risalire proprio a un insieme di tradizioni, di miti e di simboli che hanno come humus fertile il comune substrato indoeuropeo realizzando una continuità spirituale che abbraccia tutte le culture figlie di quell’Urheimat, dall’Europa del nord fino all’Oriente, gli Ariani sono figli dello stesso cielo e del Sole, della Svastika.
La parola non è nient’altro, se la si vuole ridurre all’essenziale, che un insieme di suoni e per comprenderne l’autentico significato dobbiamo prima risalire alla radice, ma ciò non basta, perché oltre questa radice dobbiamo risalire all’Idea, al Suono primordiale che, al pari del mantra OM, comprende in sé la Natura dell’Universo intero. Tornando a Roma, il nome sia del suo fondatore Romolo che del fratello Remo iniziano tutte e tre per la lettera R, come mai? Qui non si parla di svolgere un lavoro da profani, ma di risalire all’Origine, alla prima emissione di fiato. Come ci ricorda Dumézil, le Rune, prima di essere un sistema grafico di lettere, erano invece i canti epici e magici[xxii]. Non è da escludere che questi stessi canti siano stati analoghi al barditus dei Germani dell’entroterra, ovvero un canto privo di parole, ma composto solo di suoni[xxiii]. Non è escluso nemmeno che il barditus, a rigor di logica, venisse seguito con la ripetizione di singole lettere e questo spigherebbe come mai poi le Rune, intese nella forma di alfabeto, siano diventate anche strumento magico di proprietà di Odino. Se prendiamo in esame il rituale mithriaco contenuto nel Gran Papiro Magico di Parigi, noi individuiamo la ripetizione continua di diversi suoni:
<<Origine prima di mia origine AEÈIOYO; Principio del mio primo principio PPP OOO PHR; Spirito dello spirito, del soffio primo in me M M M…>>[xxiv]
In sostanza, nel rituale viene chiesto di eseguire una certa serie di suoni come il suono P per rievocare lo scoppiettio del fuoco e il suono M per riprodurre il muggito del toro che verrà sgozzato da Mithra stesso. Vediamo quindi come il legame tra il mondo latino e quello germanico, i quali per troppo tempo sono stati considerati in antitesi l’uno con l’altro, continua a farsi sentire anche nel medioevo, ma già dall’epoca tardo antica possiamo notare Rune germaniche raffigurate sugli scudi delle unità dell’esercito romano e, ancora più indietro nel tempo, questo rapporta affonda le sue radici nel periodo d’oro del principato. Tutti conoscono il celebre Imperatore Marco Ulpio Traiano e le sue vittoriose campagne in Dacia e in Oriente, ma molto meno conosciute sono le campagne in Germania contro il popolo dei Bructeri prima di venire elevato alla dignità imperiale. Ma il legame tra l’Optimus Princeps e il mondo germanico non si ferma qui. E c’è un elemento che unisce Traiano con le popolazioni oltre il Reno: il suo stesso gentilizio. Il gentilizio Ulpius deriva probabilmente dal gruppo osco-umbro delle lingue italiche e significherebbe proprio “lupo”[xxv]. Pensiamo infatti a come la Gens Ulpia fosse proprio originaria dell’Umbria. Tornando ai Germani, un’iscrizione di epoca traianea nei pressi di Rimburg riporta il nome Germanico Ulfenus, seguita da un’altra rinvenuta nella Germania romana con il nome Ulfus.[xxvi] Tale assonanza si mantiene con la parola gotica wulfs e tedesca wulf, lupo. È probabile allora che nella Germania Inferior, proprio dove Traiano era governatore, il nome Ulpius potesse suonare alle orecchie dei Germani come Ulfus (Wulfus). E quindi non sembra affatto casuale che sulla Colonna traiana l’Imperatore venga raffigurato con i suoi “guerrieri-lupo” germanici, che non è un costume solo del mondo nordico, ma anche italico. Basti pensare ai guerrieri Ernici descritti da Virgilio con la pelle di lupo addosso e mentre impugnano due lance in battaglia[xxvii], i quali avrebbero potuto parlare, forse, un dialetto osco-umbro, lo stesso degli avi di Traiano. Certo, sicuramente i germani raffigurati con Traiano sono le sue guardie del corpo “barbariche” che tutti gli imperatori hanno usato per bilanciare il potere dei pretoriani. Ma nulla vieta di pensare che un simile accostamento possa riferirsi proprio alle origini della famiglia di Traiano. Lupi dell’Umbria e del Reno. Volendo scavare più a fondo è probabile che i Germani abbia visto in Traiano e, presumibilmente in tutti gli Imperatori di Roma, la figura del capo e del conquistatore di popoli nella sua manifestazione sovrumana. << I Germani avevano un modo di vedere radicato nella loro natura: per essi era come se venisse confermata l’origine divina dei sovrani. Come la loro lancia era l’immagine dell’arma di Wotan, all’elmo di Costantino si collegò l’elmo reale germanico del primo medioevo. Non minore suggestione ebbe il monogramma di Cristo, che Costantino aveva fatto riprodurre sugli scudi dei suoi soldati: essi avevano una analoga forma di espressione nelle rune, anch’esse usate come simboli sugli scudi.>>[xxviii]

Risulta a questo punto molto importante, per analizzare il rapporto tra latinità e germanicità prendere in considerazione brevemente le simbologie di un manufatto molto speciale: il cofanetto Franks. Trattasi di un cofanetto di origine anglosassone e realizzato in osso di balena. Su questo manufatto affascinante sono narrate in una sintesi che unisce la Tradizione latina, germanica e anche cristiana, i passi salienti della nostra mitologia europea e non solo. Sono raffigurate scene che ritraggono Romolo e Remo allevati dalla lupa, come anche Tito che espugna Gerusalemme. Vengono poi narrati episodi inerenti alla mitologia germanica, aventi per protagonista il fabbro Weland e, forse, tra le varie scene, si è potuto ipotizzare che venga raffigurata la morte del Dio norreno Baldr. Su questo cofanetto si alterna l’utilizzo delle rune e dell’alfabeto latino. Proprio in alfabeto runico viene narrata la vicenda di Romolo e Remo:
<<Romwalus and Reumwalus, twœgen gibroþær, afœddæ hiæ wylif in Romæcæstri, oþlæ unneg.>>
<<Romolo e Remo(lo), due fratelli, una lupa li ha allevati a Roma, lontani dalla loro terra natia.>>
Come scritto poco prima, Romolo, Remo e Roma iniziano tutti e tre con la stessa lettera-Runa. Una triplice allitterazione della runa R i cui significati verranno ora sviscerati per quanto possibile. La Runa in questione è, per l’appunto, Raido, in anglosassone Rad, indica il viaggio, da intendersi non solo come viaggio fisico dei due fratelli, ma soprattutto interiore che li porta lontani dalla loro patria per essere allevati a Roma, sebbene Roma non sia stata ancora materialmente fondata. Le simbologie di questa Runa sono da ricollegarsi alla cultura indoeuropea. Come riporta Guido von List, Raido è la Runa della Diritto e di ciò che è conforme all’Ordine degli Dèi, right in inglese, recht in tedesco, retto in italiano, Rta in sanscrito, ritus in latino. Il Di-ritto dei nostri Avi latini era infatti un tutt’uno con la Legge del Cosmo[xxix]. La Runa Raido–Rad simboleggia anche il cavalcare e il viaggio a cavallo, ma Raido-Rad è anche la ruota, o ruota cosmica. Mettiamo in ordine quanto scritto nelle ultime righe partendo da un antico poema runico anglosassone datato tra l’VIII e il IX secolo d.C.
<<Rad byþ on recyde rinca gehwylcum sefte ond swiþhwæt, ðamðe sitteþ on ufan meare mægenheardum ofer milpaþas.>>[xxx]. Ovvero:<<Cavalcare sembra facile per ogni guerriero mentre è in casa e molto coraggioso colui che [invece]attraversa le strade poco battute in sella a un cavallo robusto.>>
Quanto scritto richiama da vicino l’antica saggezza di Odino, il quale esortava a intraprendere il viaggio quale partenza spirituale:
<<Di saggezza abbisogna
Colui che in lungo viaggia,
facile è a casa ogni cosa.
Risibile diviene
quello che nulla sa e tra saggi siede.>>[xxxi]
Tale viaggio, come si evince dal poema, può essere svolto a cavallo. Il cavallo incarna gli istinti e le passioni che devono essere tenute a bada con mano ferma. Il Sapiente Parmenide è su un carro, simboleggiante il veicolo che conduce lungo la via iniziatica, trainato dalle cavalle che lo porteranno davanti alla Dea che lo istruirà verso la saggezza:
<<Le cavalle che mi portarono fin dove giunge il mio desiderio
mi scortarono, dopo avermi guidato sulla via della Dea, che dice molte cose
e porta in ogni contrada l’uomo che sa.>>[xxxii]

E, allo stesso modo, il guerriero Arjuna che combatte su un carro guidato da Krishna, l’aspetto divino che risiede nell’uomo e che tiene ben saldi gli impeti passionali. Insieme ai gemelli sono poi raffigurati due lupi, atti, con tutta probabilità, a rappresentare la dualità del lupo quale animale apollineo e al tempo stesso bestia infera devastatrice che finirà con il divorare Odino stesso. Mentre Remo è colui che agisce contro la Runa Raido, quindi l’opposto del fratello. Egli incarna al contrario l’elemento titanico che attenta al limite sacro, con l’intento di scavalcare le mura sacre costruite dal fratello. Queste mura non sono presenti fisicamente, ma religiosamente sono state già erette e che svolgono la funzione di protezione contro le forze infere, intese come basse, che si manifestano negli istinti peggiori dell’uomo. Per concludere, noi, eredi di un passato ancestrale, il nostro sguardo deve essere rivolto sempre verso il Nord del mondo. Altro che Ex Oriente Lux, semmai, come scrisse Evola, dall’Oriente sono sempre venute le tenebre[xxxiii]. Pensatori come Drieu La Rochelle e Adriano Romualdi videro il futuro dell’Europa anche nella nostra spiritualità arcaica, il volto apollineo della razionalità classica [xxxiv]. Il Sole, ogni volta che brilla, brilla per tutti e quindi è Divino. Dove risplende la Ruota solare lì ci sono gli Dèi, lì ci sono gli Indoeuropei, il popolo della terra sacralizzata di un Nietzsche.
Note:
[i] A. Romualdi, Los Indoeuropeos: Orìgenes y migraciones, Ediciones del C.E.I, Madrid 2002, p. 122; cfr, M. Eliade, Storia delle credenze religiose: Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Vol 1, Sansoni Editore 1979, p. 207-208.
[ii] A. Romualdi, Los Indoeuropeos: Orìgenes y migraciones, p. 40.
[iii] G. Bonfante, Il sale e l’aratro fra gl’Indoeuropei in Studia etymologica Indoeuropaea. Memoriae A. J. Van Windekens dicata (Orientalia Lovaniensia Analecta), L. Isebaert (ed.) Leuven 1991, pp. 107-108.
[iv] F. Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa, Il Mulino 2021, p. 573.
[v] H.F.K. Günther, The racial elements of European history, Metheun & Co. 1927, p. 140.
[vi] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee 1969, p. 231-232.
[vii] A. Romualdi, Sul problema di una Tradizione europea, Edizioni di Vie della Tradizione Palermo 1996, p. 10.
[viii] J.J. White, Ice age Swastika from Mezin in Ukraine: interpretation of basic symbol of mankind su Archive.org
[ix] A. Bonfanti, L’Urvolk della Cultura megalitica e del bicchiere campaniforme: un’Europa indoeuropea ab imis, su centrostudilaruna.it.
[x] A. Azzaroli, L’arte equestre degli etruschi, in Atti del Congresso etrusco di Firenze, Vol. 3, p. 1429
[xi] A. Romualdi, Los Indoeuropeos: Orìgenes y migraciones, p. 15.
[xii] A. Azzaroli, L’arte equestre degli etruschi, p. 1430.
[xiii] Cassio Dione, Storia romana, XLIII, 23.
[xiv] A. Piganiol, Le conquiste dei romani, il Saggiatore 1971, p. 80.
[xv] H.F.K. Günther, The racial elements of European history, p. 174.
[xvi] F. Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa, p. 479-480.
[xvii] Orazio, Odi IV, 7, vv. 15-16.
[xviii] A. Romualdi, Sul problema di una Tradizione europea, p. 15-17.
[xix] G. Devoto, Storia della lingua di Roma Licinio Cappelli Editore Bologna 1987, p. 102.
[xx] Ibidem, p. 103.
[xxi] M. Scaligero, La Razza di Roma, Mantero 1940, p. 156-157.
[xxii] G, Dumézil, Gli Dèi dei Germani, Adelphi Edizioni 2020, p. 67.
[xxiii] Tacito, Germania, 3
[xxiv] Gruppo di Ur, Introduzione alla Magia, Vol. I, Edizioni Mediterranee, Roma 1971, p. 117.
[xxv] J. Bennet, Trajan Optimus Princeps, Routledge 1997, p. 1.
[xxvi] M.P. Speidel, Ancient germanic warriors: Warrior styles from Trajan Column’s to Icelandic Sagas, Routledge 2004, p. 16.
[xxvii] Virgilio, Eneide, VII, 678-690.
[xxviii] F. Altheim, Dall’antichità al medioevo, Sansoni Editore Firenze 1961, p. 39
[xxix] G. von List, Il segreto delle Rune, Società Editrice Barbarossa 1994, p. 30
[xxx] B. Dickins, Runic and heroic poems of the old Teutonic people, Cambridge University press 1915, p. 14-15.
[xxxi] Hávamál, V.
[xxxii] Parmenide, Dell’Origine, fr. 1.
[xxxiii] J. Evola, Sintesi di dottrina della razza, Edizioni Ar 1978, p. 190.
[xxxiv] A. Romualdi, Sul problema di una Tradizione europea, p. 54.
Luigi Mancuso
