Sul Bestiario di Roma di Alfredo Cattabiani – Giovanni Sessa
“Dante Templare” di Robert L. John – II parte – La formazione del giovane Dante – Piervittorio Formichetti
prosegue…
Robert Ludwig John, nel libro di cui ci si sta occupando, non esclude che i primi contatti di Dante con il pensiero templare siano avvenuti molto presto, addirittura prima della sua adolescenza, ossia negli anni che Dante ricorderà nella sua prima opera importante, la Vita nova (conclusa tra il 1294 e il 1295), nella quale, come è noto, Dante rievoca i fatti fondamentali della sua vita fino a quel momento, tra cui i due incontri significativi e determinanti con Beatrice (il che non significa letteralmente che questi due incontri siano stati gli unici nellʼarco di diciotto anni, bensì i più significativi; ma su questo problema si tornerà in seguito).
Un maestro nordeuropeo? Sigieri di Brabante
Quale iter scolastico ed eventualmente universitario seguì il Dante adolescente, e quale influsso ebbe sulla sua opera? Secondo lo John, è possibile che egli abbia ascoltato qualche lezione del docente Sigieri di Brabante, il più importante teologo dellʼUniversità di Parigi – insieme al suo avversario Tommaso dʼAquino – che a causa della sua vicinanza intellettuale alla versione della filosofia aristotelica veicolata dal filosofo musulmano Averroè, rischiò di essere processato dal tribunale dellʼInquisizione di Parigi, al quale sfuggì rifugiandosi presso la corte papale ad Orvieto, dove visse in semilibertà finendo poi, fra il 1282 e il 1284, ucciso da un suo segretario impazzito. Non è impossibile, quindi, che il Dante adolescente si sia recato a Orvieto per seguire almeno un corso introduttivo tenuto dal magister Sigieri, e che tale occasione sia stata segnalata a Dante dal suo famoso maestro, il poeta Brunetto Latini: «La calda partecipazione che nel suo Paradiso Dante esprime per la tragica fine di Sigieri suggerisce davvero il pensiero che […] lo abbia conosciuto personalmente» (DT , p. 17). [8]
A questo proposito, John fa notare che, tramite il suo maestro di retorica Brunetto Latini, il giovanissimo Dante potrebbe aver conosciuto, oltre ai Livres du Trésor e al Tesoretto dello stesso Latini, anche il complesso Roman de la Rose (Romanzo della Rosa), che Latini tradusse in italiano e che un «messer Durante fiorentino», oggi considerato pressoché unanimemente dagli specialisti lo stesso Dante Alighieri, ridusse a una versione più breve (da 23.000 versi a 232 sonetti: curiosamente, quasi il sottomultiplo del numero dei versi dellʼoriginale), intitolata Il Fiore.
Del Romanzo della Rosa, la cui seconda parte si deve al poeta Jean de Meung o de Meun (1250-1305), componente della famiglia Chopinel, noi possiamo ricordare due citazioni. Jean, ad un certo punto, si rivolge ai lettori dicendo: «Cʼè nelle mie parole un senso diverso da quello che tu vi metti, e chi approfondirà il testo vedrà il significato esatto del racconto [fable]» [9]: in questo avviso cʼè indubbiamente unʼanalogia con quanto detto da Dante a proposito del proprio poema:
O voi chʼ avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che sʼasconde
sotto ʼl velame de li versi strani
(Inferno, IX, 61-63),
dove «strani» può significare non solo enigmatici, cioè allegorici, relativamente alla sua Commedia, ma anche «estranei», cioè stranieri: e qui credo sia interessante menzionare lʼopinione di una persona appartenente allʼIslam Sciita – confessione islamica tipica della regione iranica, donde, come si è visto, ebbe origine lʼallegoria mistico-poetica della Donna come insieme delle perfezioni di Dio – che qualche tempo fa si è chiesta se il Poeta potesse riferirsi alla lingua araba, lingua estranea per eccellenza alle orecchie e agli occhi di un cristiano del Medioevo, e quindi ai versetti sacri del Corano. Non possiamo esserne certi; sicuramente non è possibile fare di Dante un credente musulmano, ma che egli conoscesse almeno qualche parola in arabo (così come nella Vita nova dimostra di conoscere il calendario arabo) e qualche nozione di religione islamica è tuttʼaltro che improbabile. Ad esempio, una fra le interpretazioni linguistiche della famosa frase pronunciata da Plutone «Papé Satan, Papé Satan aleppe!» (Inferno, VII, 1) sostiene che il Poeta avrebbe adattato la frase araba Bab e shaytan, bab e shaytan, alebbi! (“La porta di satana, la porta di satana, fèrmati!”) oppure la frase araba Babù shaytan, babù shaytan alʼe beyt! (“Disonore, satana, disonore, satana, nella tua casa!”), alludendo al fatto che Dante entra nellʼinferno pur non essendo un dannato, e per di più in carne e ossa anziché soltanto in anima [10]; un caso analogo è la frase di Inferno XXXI, 67, ossia il saluto rivolto a Virgilio dal re biblico Nembrot, cioè Nemrod, il costruttore della torre di Babele e quindi responsabile della confusa pluralità delle lingue: «Rafèl maì amèch zabì almi!», che in un arabo un po’ alterato significherebbe «Oh elevato sulle acque dolci e profonde della scienza!» [11].
Nel Roman de la Rose si legge anche un auspicio di vita eterna nel Paradiso immaginato, in aderenza alla sua etimologia persiana (pardès o paradèza), come un giardino coltivato e delimitato (in latino hortus conclusus):
Quando andrete al campo delizioso, seguendo le tracce dell’Agnelletto eternamente vivo, per bere alla fonte che vi renderà immortali, e andrete gioiosamente per sempre cantando mottetti e canzonette, passeggiando sotto gli olivi tra i fiori… [12];
uno scenario tale potrebbe aver avuto un ruolo nella concezione dantesca della radura con cui comincia il Paradiso terrestre, e del comportamento di Matelda, che è quasi esattamente quello descritto nel poema francese: la misteriosa donna – sulla cui identità sono state formulate varie ipotesi, tra cui quella dello stesso John che si vedrà in seguito – , allegoria della pace e della serenità, cammina sul prato «cantando e scegliendo fior da fiore» (Purg., XXVIII, 41). Inoltre Dante stesso, nel canto XXV del Paradiso, si definisce «agnello» (cioè innocente, nonostante le calunnie e lʼingiusto esilio), ricordando Firenze nei tempi in cui non era ancora sconvolta dalla guerra civile che gli costò lʼesilio: la città, da lui amata e odiata ad un tempo, è detta «il bello ovile ovʼio dormiʼ agnello» (Par., XXV, 5).
(Sigieri di Brabante)
Per inciso, autori come Serge Hutin hanno notato legami di alcuni contenuti del Romanzo della Rosa col simbolismo alchimico [13], ragione per la quale il brano sullʼAgnelletto eterno (chiaramente unʼallegoria del Cristo risorto tratta dallʼApocalisse), potrebbe avere anche un legame con il celebre dipinto sul polittico detto appunto dellʼAgnello mistico, opera dei fratelli Jan e Hubert van Eyck, famosi pittori fiamminghi (quindi molto più vicini di Dante allʼarea di composizione del Roman de la Rose) la cui formazione non esclude affatto la conoscenza di nozioni e di pratiche di laboratorio alchimiche: afferma infatti lʼHutin che «si è anche accertato che uno dei fondatori della pittura fiamminga, Jan van Eyck, deve la sua invenzione di un procedimento di pittura a olio alle sue conoscenze alchimistiche» [14]. Ma il simbolismo alchimico potrebbe a sua volta essere messo a confronto con la struttura e con alcuni brani della Commedia: chi scrive ha raccolto qualche possibile elemento in proposito nellʼarticolo Dante «pellegrino alchemico»: analogie tra la Divina Commedia e “Il mistero delle Cattedrali” di Fulcanelli [15].
Da parte sua, nella versione italiana del Romanzo della Rosa (il Fiore) dovuta al giovane Dante, Robert John nota un indizio eloquente della considerazione che il Poeta doveva avere per il magister Sigieri di Brabante: nella versione italiana, il sonetto n. 92 del Fiore, che riguarda la morte di Sigieri, presenta una figura di simulatore, Falsosembiante, che si vanta di aver ucciso «mastro Sighier»; benché il personaggio di Falsosembiante sia presente anche nell’originale francese (col nome Faux-Semblant), questo sonetto non ha corrispondenza nellʼopera francese – dunque il giovane Dante lo inserì di sua iniziativa nel Fiore – e inoltre somiglia molto ai versi del Paradiso con cui il Dante circa cinquantenne, proprio tramite le parole di san Tommaso dʼAquino, ricorderà ancora il filosofo di Liegi:
Questi, onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ʼl lume dʼuno spirto che in pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che leggendo nel Vico de li Strami,
sillogizzò invidiosi veri.
(Paradiso X, 133-138) [16]
La possibile presenza di Dante adolescente in Umbria – aggiungiamo noi – rende possibile anche che egli abbia visto un particolare nella chiesa di San Bevignate a Perugia (città che ospitava una magione templare a fine Duecento [17]), non privo di una possibile relazione con il suo Poema: in questa chiesa, fondata appunto dai Templari e costruita tra il 1256 e il 1262 (conclusa perciò tre anni prima che Dante nascesse poco lontano), è presente un affresco in cui compaiono tre croci con intorno nove stelle [18]. La chiesa di San Bevignate è alta 27 metri [19]: ventisette è il prodotto di 3 (numero delle croci) per 9 (numero delle stelle, a sua volta prodotto di 3), e come è noto, la Divina Commedia ha tre cantiche, ognuna delle quali è composta di terzine e si conclude con la parola «stelle».
Due insegnanti domenicani? Remigio Gerolami e Nicola Brunazzi
La formazione del giovane Dante, in sostanza, potrebbe essere stata complessivamente più approfondita di quanto si supponga comunemente, anche se ci risulta problematica e lacunosa: ad esempio, in che modo ha potuto acquisire una notevole istruzione, anche teologica, senza esser stato novizio in alcun Ordine? Ad esempio, a 24 anni (verosimilmente compiuti da pochissimi giorni) combatte come «feditore a cavallo» guelfo nella battaglia di Campaldino, contro i ghibellini di Arezzo (11 giugno 1289). Lo John sostiene che fin da ragazzino Dante dovrebbe aver avuto qualche contatto con ambienti Templari, intraprendendo forse gli studi per divenire un chierico dell’Ordine.
In ogni caso, è probabile che gli insegnanti di Dante a Firenze fossero due frati domenicani, allievi di Tommaso dʼAquino: il fiorentino Remigio Gerolami (morto nel 1319) e il perugino Nicola Brunazzi (ecco un contatto di Dante con Perugia); entrambi insegnarono nella scuola fiorentina del loro Ordine, elevata poi a studium nel 1295. Non è da escludere – argomenta quindi il docente austriaco – che nella Commedia sia rimasta una traccia dei loro insegnamenti. I circa cento passi della camminata di Matelda e i dieci passi di Beatrice nel Paradiso terrestre (Purgatorio, XXIX, 10; XXXIII, 17) potrebbero essere la rielaborazione dantesca di unʼallegoria presente in uno scritto di Remigio Gerolami intitolato De via Paradisi (Sulla via del Paradiso): «Via vero paradisi habet passus numero decem, secundum numerum decem moralium praeceptorum Dei, ita quod quodlibet praeceptum est unus passus» (La via del Paradiso consta di dieci passi, secondo il numero dei dieci comandamenti morali di Dio, di modo che ogni comandamento corrisponde a un passo).
Questa ipotesi – aggiungiamo noi – può far sorgere una domanda: perché Matelda compie cento passi e Beatrice dieci? Probabilmente, se esiste davvero un rapporto tra le due allegorie muliebri e tra il numero dei loro passi, ciò va interpretato nel senso che il cammino verso la beatitudine è metaforicamente più breve per chi è, in senso figurato, più vicino ad essa, cioè spiritualmente perfetto come Beatrice, mentre si rivela più lungo (cento passi sono dieci volte dieci) per chi si trova in una condizione spirituale meno elevata, ossia più lontano.
Dante a Parigi: quante volte?
Robert John avalla fortemente anche lʼipotesi che Dante sia stato presente a Parigi non soltanto negli anni 1308-1310 circa (possibilità discussa da tempo tra gli studiosi), ma anche prima, verso il 1294, e che forse si sia spinto fino ad Oxford, lʼaltro grande centro universitario europeo dellʼepoca (DT , p. 31); sulla eventuale presenza di Dante ad Oxford, tuttavia, lo John non dirà più niente nel resto del suo libro [20]. Del suo soggiorno trecentesco a Parigi – ad oggi non confermato ma probabile – che sarebbe durato circa due anni, riferiscono dopo la sua morte ben quattro autori del Trecento: il noto cronista Giovanni Villani, i commentatori della Commedia Francesco da Buti, pisano, e Benvenuto Rambaldi da Imola, infine Giovanni Boccaccio, profondo ammiratore e biografo di Dante (fu lui ad associare per la prima volta l’aggettivo «divina» alla Commedia):
Secondo il Villani, Dante, dopo l’esilio, si recò sia all’università di Bologna che a quella di Parigi: «Colla detta parte bianca [i Guelfi Bianchi] fu cacciato e sbandito da Firenze, e andòssene allo Studio di Bologna e poi a Parigi» (Cronica, IX, 36); oltre al Buti e al Benvenuto, anche il Boccaccio dice: «Se n’andò a Parigi, e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede». Uniti a queste testimonianze, i riferimenti che esistono nel Poema renderebbero probabile un soggiorno parigino tra il 1309 e il 1310, anche se non esistono documenti al riguardo [21].
Questo arco di tempo (1308-1310) corrisponde ai due-tre anni immediatamente successivi all’arresto in massa dei Templari, che avvenne proprio a partire da Parigi e di cui sicuramente nella capitale francese si parlava, almeno tra la gente colta. È quindi lecito domandarsi se il Poeta sia andato a Parigi non soltanto per approfondire le scienze naturali («filosofia naturale») e la teologia, ma anche per conoscere meglio le vicissitudini e il destino dei Templari, sempre che non fosse già in contatto con lʼOrdine monastico-cavalleresco in Italia. La citazione del Villani «si recò a Parigi» è riportata dallo John con lʼintegrazione: «e in più parti del mondo», ed è riferita, secondo lui, al primo viaggio parigino del Poeta, forse avvenuto verso il 1294; di una presenza di Dante a Parigi parlano inoltre – aggiunge John – anche Giannozzo Manetti e Filippo Villani, nipote di Giovanni (DT , p. 47).
Una successiva fonte al riguardo, citata dallo John, risale al secolo successivo: il vescovo di Fermo, Giovanni Serravalle, ammiratore dellʼAlighieri, partecipò al Concilio di Costanza (1414-1418), durante il quale, evidentemente, ebbe il tempo di scrivere una traduzione latina della Commedia su richiesta di due vescovi inglesi, Hallum e Bubwych; secondo il vescovo Serravalle, certamente Dante si era recato nella capitale francese per seguirvi gli studi teologici, ed è verosimile che Serravalle abbia saputo del presunto soggiorno parigino di Dante nel 1294 da qualche vescovo francese presente al medesimo Concilio. Il Serravalle riteneva che Dante non avesse poi potuto concludere gli studi conseguendo il dottorato in Teologia per mancanza di mezzi finanziari: il che, allo John, sembra poco plausibile, sulla base di un fatto: nel 1293, Dante aveva ottenuto un prestito di ben 757 ducati fiorentini da tre banche di Firenze (Ricci, Corbizi, Riccomanni), che evidentemente lo ritenevano in grado di restituire tale denaro (DT , pp. 49-50) e forse i relativi interessi. Questo prestito risulterebbe dunque precedente di pochissimi anni ad altri tre che la famiglia Alighieri ottenne tra il 1296 e il 1297, almeno uno dei quali per riparare la spaccatura di un pozzetto battesimale del duomo di San Giovanni a Firenze (ma secondo altri commentatori, del duomo di Pisa), che Dante aveva infranto per salvare un bambino che vi era caduto dentro: «ancor non è molt’anni» dallʼaccaduto – dice il Poeta nei panni di se stesso nel canto XIX dellʼInferno – prima del 1300 in cui è ambientata la Commedia [22].
Tornato in Italia, Dante si dedicò alla carriera politica, raggiungendo un ruolo apicale: divenne uno dei sei Priori di Giustizia di Firenze. Questo sarebbe il vero motivo del suo abbandono degli studi teologici, possibilmente cominciati in patria (come aspirante chierico templare?) e approfonditi a Parigi, una svolta brusca della sua vita per la quale egli, attraverso il duro rimprovero di Beatrice nei canti XXX e XXXI del Purgatorio, dimostrerà negli anni successivi un certo pentimento: la Teologia-Beatrice rimprovererà a Dante di averla abbandonata per volgersi ad un altro “amore” filosofico-intellettuale inferiore a lei, cioè la politica.
Come possibile ulteriore indizio della presenza dellʼAlighieri nella capitale francese, noi possiamo aggiungere una curiosità: anche il giovane Gustavo Adolfo Rol (Torino, 1903-1994), non ancora famoso come pittore e antiquario, né come tramite di prodigiosi fenomeni extra-ordinari, in una lettera alla famiglia datata del 16 febbraio 1926 da Parigi scriveva: «Vi ho scritto una volta che a ridosso della chiesetta di Saint Julien le Pauvre, cʼè la casetta “ou Dante ne pouvais payer sa chambre” [dove Dante non poté pagare la sua camera]» [23]; la chiesa di Saint Julien le Pauvre è infatti citata dallo stesso John come luogo rappresentativo dei dettagli che forse non potremo mai appurare sulla possibile vita parigina del Poeta.
Con tali indicazioni – scrive – che non sembrano inventate di sana pianta, è lecito ritenere che Dante si sia recato a Parigi nel 1294, già preparato in teologia, e pieno di desiderio di conoscere la città delle scienze di cui gli avevano parlato Brunetto Latini, Sigieri di Brabante e Fraʼ Remigio (che lui pure aveva dimorato a lungo in Parigi) (DT , p. 49).
Meno verosimile, ma tramandata comunque dal vescovo Giovanni Serravalle, è anche la notizia secondo cui nel 1294 il ventinovenne Dante, «baccelliere dalla stupefacente memoria», avrebbe esposto un commento alle Sentenze di Pietro Lombardo (secolo XII), testo diffuso in moltissime università dellʼepoca con la funzione di manuale di teologia. Di una possibile attività teologica di Dante alla Sorbona parlano anche altri tre personaggi storici: un figlio del Poeta, Pietro Alighieri (noto anche come Pietro di Dante, autore di un commento alla Commedia ritenuto generalmente di poco valore in confronto a quelli di Cristoforo Landino, del Buti, ecc.), Andrea Poggi, figlio di una sorella di Dante, ed un amico ravennate di Dante, Pier del Giardino (di messer Giardino o Giardini) (cfr. DT , p. 50).
In sostanza, Dante poteva essere «perfettamente in condizione di apprendere in modo del tutto attendibile gli avvenimenti connessi col processo dei Templari e col Concilio di Vienne. Tanto più che egli stesso aveva dimorato a Parigi ancora nel 1310» (DT , pp. 104-105). Benché non vi sia la certezza di che cosa Dante avrebbe appreso nel corso dei suoi probabili soggiorni parigini,
non può però essere messo in dubbio che tutti i Templari e i loro adepti seguissero con la massima attenzione gli eventi di Vienne, che conferirono il suo significato decisivo all’intero processo dei Templari, o meglio, a tutti i processi europei contro i Templari. I protagonisti della vita culturale erano del resto informati, nel medioevo, delle cose che li riguardavano, anche a grandi distanze, assai meglio di quanto oggi si sia disposti ad ammettere (DT , p. 103).
E questa osservazione ci sembra puntuale anche per quanto riguarda lʼodierna narrazione superficiale, e sovente ideologica, del Medioevo come epoca ignorante, bigotta ed “oscura”, priva di sfaccettature e di dinamiche interne, nonostante sia durata quasi un millennio. Ma lasciamo da parte le miserie dellʼattualità.
Note:
8 – Il relativo brano del Paradiso è collocato nel canto X, vv. 133-138: «Questi, onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ʼl lume dʼuno spirto che in pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri»…
9 – Citato in Serge Hutin, La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo, Milano, Fabbri Editori – RCS Libri, 1998 (ed. or. Paris, Hachette, 1977), p. 92.
10 – Cfr. Dante Alighieri, Divina Commedia, a cura di Italo Borzi, Giovanni Fallani e Silvio Zennaro, Roma, Newton & Compton, 2010, p. 69, nota 1.
11 – È l’interpretazione di Ernesto Silvio Parodi, in appendice a Dante Alighieri, Divina Commedia, a cura di M. Manfredini, ed. Nerbini, Firenze 1940, Annotazione finale al canto e verso citati
12 – Citato in Hutin, La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo, cit., p. 100.
13 – Cfr. Hutin, op. cit., pp. 48, 62, 92, 95, 100, 172, 193.
14 – Ibidem, ivi, pp. 116-117, che rimanda a Jacques van Lennep, Art et alchimie, Bruxelles 1966, p. 19
15 – Su “Pagine Filosofali”, https://www.paginefilosofali.it/dante-pellegrino-alchemico-analogie-tra-la-divina-commedia-e-il-mistero-delle-cattedrali-di-fulcanelli-piervittorio-formichetti/.
16 – Il Vico degli Strami sarebbe Via della Paglia, la strada di Parigi lungo la quale era situata lʼUniversità della capitale francese.
17 – Cfr. ad es. Malcolm Barber, La storia dei Templari, Casale Monferrato, Piemme, 2004, pp. 290-291.
18 – Cfr. Barber, La storia dei Templari, cit., p. 19.
19 – Ibidem, ivi, p. 235.
20 – Per alcuni possibili indizi che il Poeta sia stato anche in Gran Bretagna, cfr. le ultime pagine di P. Formichetti, Il «Gran Fior» del Paradiso». Dante, la Candida Rosa e il Sacro Graal, cit.
21 – Italo Borzi, Dante Alighieri: profilo biografico, in Dante Alighieri, Vita nuova, Roma, Newton & Compton, 2009, p. 9; anche in ID., Divina Commedia, Roma, Newton & Compton, 2010, p. 8.
22 – Cfr. Per correr miglior acque. Letture dantesche torinesi – Inferno, a cura del gruppo di studenti guidato dal prof. Donato Pirovano, Università di Torino, lezione del dott. Attilio Cicchella sul canto XIX dellʼInferno, 13 ottobre 2016 (appunti dello scrivente su https://www.academia.edu/42027373/_Per_correr_miglior_acque_Letture_dantesche_torinesi_Inferno).
23 – Citato in “Io sono la grondaia”. Diari, lettere, riflessioni di Gustavo Adolfo Rol, a cura di Catterina Ferrari, Firenze, Giunti, 2000, pp. 71-72.
continua…
Piervittorio Formichetti