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Esprimere il vissuto: la filosofia di Giorgio Colli – Giovanni Sessa
Chi scrive, fin dalle letture adolescenziali, ha considerato Giorgio Colli filosofo di grande spessore. Troppo spesso il suo operato è stato valorizzato esclusivamente in riferimento alla curatela dell’opera di Nietzsche. Taluno, tra i critici, ha addirittura criticato il suo approccio filologico-teorico al mondo dei Sapienti. In realtà, egli è stato: «filosofo nel senso classico […] impegnato in un radicale ripensamento della tradizione filosofica occidentale alla luce di una nuova configurazione del rapporto tra conoscenza e vita» (p. 13). È quanto si evince dalla lettura di un volume collettaneo a lui dedicato dall’Istituto Italiano per gli studi filosofici, Esprimere il vissuto. La filosofia di Giorgio Colli, curato da Ludovica Boi, Giulio M. Cavalli e Sebastian Schwibach (per ordini: info@scuoladipitagora.it, pp. 260, euro 24,00).
Il testo raccoglie i contributi che furono presentati nelle giornate di studio tenutesi a Napoli, presso la sede dell’Istituto, dal 4 al 6 ottobre 2021. Il volume si compone di quattro sezioni. La prima contiene scritti di Riccardo Cavalli, Carlo Gentili e Alessio Santoro. Cavalli si occupa dell’interpretazione colliana del Parmenide di Platone, dialogo nel quale venne meno la pretesa di definire in termini razionali l’idea. Nelle sue pagine, per l’ultima volta, secondo Colli: «rivive la ragione sana e vitale dei “filosofi sovraumani”, la cui natura distruttiva […] non compromette il possesso inscalfibile che il sapiente ha conquistato una volta per tutte dentro di sé» (p. 25). Nel Parmenide tornò a baluginare la Sapienza, il cui lucore sarà spento dalla riduzione dell’idea a concetto, che indusse la separazione di vita e pensiero. L’autore rileva come, nell’attitudine estetica platonica, sia rinvenibile un’articolazione del nesso idea-mondo non ancora del tutto disancorato dal sensibile: «Si coglie qui l’eco della teoria schopenhaueriana […] ma anche il decisivo scarto da essa, nell’insistere sulla natura non formale della soggettità pura […] e nel mettere in risalto […] la sua vitalità» (p. 29). Il principio, inteso in modalità statica e trascendente, è, a dire di Colli, cieco di fronte alla vita sempre in fieri.
Gentili sposta il discorso sull’idea che della politica si fece il giovane Colli. In quel frangente, il filosofo torinese si servì delle analisi di Julius Stenzel e Christian Meier, non mancando di cennare alla visione schmittiana. Il tema è affrontato muovendo da: «scorci offerti dalla tragedia attica» (p. 10). Il senso del “politico” si disvela nei casi messi in luce da alcuni componimenti tragici, nei quali l’associazione politica incontra e si scontra con il suo contrario, la dissociazione, dando luogo alla stasis: «Il politico prevede una riflessione sui modi della democrazia e sulle relazioni con il suo apparente opposto: la tirannide» (p. 61). Colli ha contezza che la tirannide nasce dalla “tracotanza”, tratto spirituale “disordinato”, lo rilevò Voegelin, dell’uomo della democrazia estrema. Il tiranno radicalizza il tratto antropologico dell’uomo democratico: vuole estendere il proprio potere su un’infinità di uomini. In ciò è da individuarsi il suo “dionisismo”, pur essendo il “politico”, per definizione, appartenente al versante apollineo.
Alessio Santoro si sofferma sulla lettura colliana di un passo del De Interpretatione (16b19-25) di Aristotele, dedicato al verbo “essere”. Il testo mostra che la critica della ragione nel filosofo italiano non è derubricabile all’irrazionalismo, ma muove dalla ragione stessa e si serve dei suoi strumenti, innanzitutto della logica, per indurre un riavvicinamento della Sapienza. Colli relativizza il ruolo conoscitivo del soggetto: «punto di vista parziale e provvisorio sul mondo» (p. 81). “Espressione” è la definizione attribuita dal pensatore ai nessi svincolati dal soggetto, che sono: «manifestazione di qualcosa di altro da cui l’espressione si è allontanata e che non potrà mai recuperare – l’“immediatezza”» (p. 81). Valerio Meattini porta l’attenzione su ragione e storia in Colli. Mostra come la loro critica possa restituire valore alla filosofia, rendendola “grammatica del limite” e sapere rigenerante, terapeutico. Ragione e storia non devono essere negate, in quanto sono segno del distacco dall’immediatezza. La prima ne fu causa, la seconda un effetto. In entrambe è celato l’immediato che può tornare a rivelarsi, sia pure per via allusiva, simbolica. Giulio M. Cavalli distingue due momenti nella critica alla ratio propria di Colli. Il primo è dato dall’approccio nietzschiano, storico-genealogico, il secondo da quello logico-dialettico, originatosi nell’eleatismo. L’esegesi dell’autore rintraccia nella nozione di contraddizione l’elemento cruciale di questo secondo momento.
Ludovica Boi intrattiene il lettore, con pertinenza argomentativa, sull’influenza esercitata dalla teosofia di Böhme sul giovane Colli. Il pensatore lesse Böhme alla fine degli anni Trenta. La sua esegesi del teosofo si avvalse degli studi di Paul Dessen e Karl Joël. Quest’ultimo sostenne che i presocratici e il teosofo furono portatori di un pensiero vivo, la cui eco si sarebbe riverberata fino al Romanticismo. I Sapienti e Böhme vissero, per Colli, un’esperienza extrarappresentativa, una cosmizzazione dell’interiorità. Un’esperienza che non può essere comunicata, anche se a volte accade, come accadde al teosofo quando si accinse a scrivere Aurora, di essere colpiti dall’: «urgenza espressiva» (p. 142). Colli mostra particolare interesse per metafisica e cosmologia in Böhme. La realtà, per il tedesco, è risultato del processo di autorivelazione dell’Ungrund, principio infondato che: «trascende il piano stesso dell’essere come ciò che, nella sua più propria essenza, non è alcuna essenza» (p. 145). Tale elemento ha in sé un volere che lo induce a manifestarsi. Non è mera quiete e trascendenza, ma brama: «un pungolo a esistere» (p. 145). L’autorivelazione consta di sette determinazioni, che nella maggior parte dei casi sono corrispondenti a un elemento alchemico. Il cosmo è costituito da questo settenario e dall’inesausta azione ritmica di Amore-Odio. Tale ritmica fa capo all’unità divina. Tutti gli opposti sono nel principio, a cominciare da essere e nulla, unità e molteplicità, essenza ed esistenza. L’“abbandono” mistico di Böhme allude alla: «reintegrazione nell’ordine cosmico, è la consumazione dell’illusione del due» (p. 152), che si sperimenta come vissutezza, attraverso il corpo. Il pensiero e il principio hanno tratto corporale e, proprio come per i Sapienti, il Geist si dà nel Leib. Essenza ed esistenza, principio e physis, dicono il medesimo.
Di rilievo anche gli altri contributi. Sebastian Schwibach si occupa di ciò che unisce e di ciò che divide Colli da Elémire Zolla. Rossella Attolini entra nelle vive cose del dibattito su apollineo e dionisiaco nella Filosofia dell’espressione. Ciò induce l’autrice a individuare prossimità e differenze delle tesi colliane rispetto a quelle di Nietzsche, Toffoletto inaugura, cosa rilevante, lo studio della filosofia della musica in Colli, mentre Corriero colloca l’esperienza colliana all’interno del pensiero italiano. Un volume ricco di stimoli teoretici. Indica una strada da perseguire.
Giovanni Sessa