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Ramana Maharshi e “L’Essenza dell’Insegnamento” – Luca Violini
Trenta strofe per esporre un intero insegnamento. Questo, limpidamente, fa l’opera di Ramana Maharshi presentata in lingua italiana dalle edizioni Le loup des steppes e a cura di Martino Nicoletti. Un autentico distillato alchemico che, attraverso brevi e succinte espressioni, dice tutto ciò che c’è da dire sul sentiero spirituale secondo la prospettiva dell’Advaita Vedanta e di Ramana Maharshi stesso. Un’opera succinta e ricca al tempo stesso, realizzata grazie alla collaborazione diretta tra l’editore il Ramanashram di Tiruvannamalai in India. La parola Vedanta indica i testi che formano la parte finale dei Veda, ovvero le Upanishad le quali ne costituiscono la “dottrina segreta” e, per estensione, designa anche gli indirizzi di pensiero il cui principale interesse è la loro interpretazione. La prima scuola di cui ci siano pervenuti i testi e che possa vantare una continuità ininterrotta fino ai nostri giorni è detta Advaita Vedanta. Qual è il fine dell’Advaita Vedanta? Il fine è la “conoscenza” (jnana) della verità. La parola “conoscenza della verità” richiede qualche spiegazione, poiché la realtà in questione è la propria vera natura dell’Atman (il Sé individuale) in quanto identico al Brahman (Sé universale): identità che, secondo l’Advaita, può essere conosciuta solo attraverso le Upanishad, ovvero dai Veda, ma che sfugge agli altri mezzi di conoscenza valida, come la percezione e il ragionamento. Il Brahman infatti non è una sostanza, una qualità o un qualsivoglia oggetto dell’esperienza, eppure dall’esperienza non è mai assente anzi è ciò che la rende possibile. La sua totale evidenza non viene colta solo a causa dell’ignoranza (avidya) che da una parte vela l’evidenza e dall’altra porta a dare realtà separata a tutto ciò che appare grazie a quell’evidenza. Necessaria alla conoscenza della realtà è dunque solo la rimozione di tale originaria ignoranza. Le Upanishad si servono di affermazioni provvisorie per rimuovere e sostituire le convinzioni errate e di successive negazioni per far realizzare la presenza del Brahman in maniera inconfutabile e definitiva. In maniera analoga a quanto avviene in altre tradizioni spirituali, ciò avviene per “via apofatica”, ovvero “negativa”: invece di cercare di designare la natura dell’Assoluto – cosa peraltro impossibile e illusoria in partenza, dal momento che l’Assoluto sfugge e trascende qualsiasi definizione – si cerca di stabilire cosa esso “non è”. È attraverso questo procedimento per esclusione – il noto netineti delle Upanishad, ovvero “non è questo, non è questo” – che l’adepto ha modo di accedere all’esperienza intuitiva e diretta della realtà ineffabile verso cui è alla ricerca.
L’ignoranza che nasconde la vera natura del Sé, e che nel suo aspetto universale è chiamata maya (o illusione), provoca l’errore della “dualità” nella non-dualità e l’errore della “realtà” all’interno della dualità stessa. In questo senso si ha dunque in primo luogo l’errore di considerare la realtà come costituita da un’opposizione basilare e strutturale tra se stessi e il mondo circostante, nonché, in secondo luogo, quello di attribuire un’esistenza tangibile alla realtà stessa. Da questo punto di vista, Ramana Maharshi, in accordo con la visione propria del Vedanta considera che, il primo dei due errori, consista nello specifico nel credere che la realtà sia costituita dall’opposizione tra l’io e la triade rappresentata dagli “altri”, dal “mondo” e da “Dio” (inteso qui come “Ishvara”, ovvero il “dio” personale ontologicamente separato e incommensurabile rispetto all’individuo). Nel secondo caso l’errore si fonda in particolare nell’attribuire una realtà oggettiva a tutto ciò a cui possiamo dare un nome (nama) e che riteniamo abbia una forma (rupa). L’attribuzione di nomi e forme definite alla realtà – di per sé una e indefinibile – è infatti la sorgente dell’errore ontologico che permette di edificare attorno a noi una realtà fatta di cose, eventi e persone. Cose, eventi e persone reali in luogo della semplice manifestazione del Brahman.
Nel contesto del Vedanta si offre spesso l’immagine della fune scambiata da una persona per un serpente. Dopo aver sovrapposto il carattere del serpente alla fune, si postula che il serpente sia reale. Così la realtà del Brahman appare connessa alla dualità e gli stolti sono certi che questa dualità sia reale. Attraverso l’oblio dell’essere maya crea dunque la molteplicità e tale molteplicità si appropria fittiziamente dell’essere da cui in realtà dipende sicché sembra dotata di un proprio essere e di una realtà autonoma. I rapporti con l’essere sono ora ingannevolmente invertiti: non sono più le apparenze ad abitare l’essere ma è l’essere a risiedere nelle cose. Al fine di trascendere la visione erronea, un ruolo particolarmente importante hanno le tre sentenze: “Io sono il Brahman”; “la coscienza è il Brahman”; “Questo Sé è il Brahman”. La loro comprensione avviene in tre momenti distinti chiamati “ascolto”, “riflessione” e “meditazione”. Il primo serve a determinare il significato corretto delle parole; il secondo a rimuovere con il ragionamento i dubbi; il terzo a quietare la mente mantenendo l’attenzione focalizzata sul significato della sentenza stessa. L’essere in grado di volgersi verso l’interiorità abbandonando non soltanto lo spettacolo multiforme del mondo esteriore ma anche i pensieri e le emozioni che vi si riferiscono. Quando non si è più in balia dei sentimenti sorti dal contatto con gli oggetti, si ha un rivolgimento interiore detto “inclinazione verso l’interiorità”, dal quale sorge l’amore per la conoscenza. A questo punto la vita attiva non ha più alcuna utilità e si intraprende la via della rinuncia. La rinuncia non implica l’abbandono di qualsivoglia azione ma di quelle volte alla realizzazione di un desiderio che distoglie dalla realtà sempre presente. L’Azione spassionata è invece ammessa poiché crea le condizioni necessarie affinché la conoscenza della realtà si manifesti ma come dice il testo e azioni anche virtuose non conducono alla Liberazione:
“I frutti dell’azione scompaiono.
Ma l’azione lascia dietro di sé
Semi di altre azioni
Conducendo a un oceano infinito di
azioni;
Ma in nessun modo alla moksha (Liberazione)”.
Infatti un’azione produce un flusso di cognizioni e questo implica, in chi le esegue, la consapevolezza della distinzione fra l’azione e l’attore che la compie. La conoscenza indicata nei Veda invece smentisce proprio la convinzione di essere il soggetto dell’azione. Proprio in virtù di questa importante constatazione il testo di Ramana compie una rassegna dei vari “cammini” contemplati in seno all’Induismo secondo il punto di vista proprio dell’Advaita. In questo senso il Karma Yoga, ovvero la via fondata sull’azione disinteressata, quello dell Bhakti Yoga, ovvero dell’amore verso l’Assoluto, come anche quello fondato sull’uso di mantra o di pratiche yogiche fisiche sono considerati come “vie” provvisorie o propedeutiche alla vera conoscenza. Questa hanno infatti lo scopo di rimuovere gli ostacoli che si frappongano al riconoscimento della realtà ma l’ultimo passo che segna la rottura definitiva con il samsara è sempre rappresentato dallo jnana yoga, lo yoga della conoscenza, quello ovvero fondato sulla visione non-dualistica propria del Vedanta: la sola in grado di offrire una visione diretta e completa della natura del Brahman. Ad ogni modo affinché questa conoscenza possa verificarsi dobbiamo utilizzare questi metodi falsi ma utili. Nell’ambito dell’Advaita il metodo offerto per poter fare esperienza diretta del Brahman, nonché della natura non-duale dell’essere è quello dell’introspezione diretta, quello dell’atmavicara, ovvero della “ricerca del Sé. È questo il metodo principe che si trova a fondamento di tutto il sistema di Ramana stesso, il quale si fonda sull’analisi diretta ed empirica volta a valutare l’esistenza, o meno, dell’“io”: la pietra angolare su cui si fonda tutto l’edificio erroneo che da forma alla visione dualista della realtà. L’adepto, volgendo lo sguardo dall’esterno verso il proprio interno si immerge nella ricerca del proprio “io” cercando di identificarlo e definirlo. Attraverso la domanda diretta “chi sono io?”, l’adepto si pone alla ricerca del proprio “io” esattamente come se si trattasse di una qualsiasi altro contenuto conoscibile. Si tratta quindi di un’indagine svolta in maniera non-mediata, il cui scopo è proprio quello di sperimentare in maniera diretta come non sia possibile postulare in alcun modo l’esistenza inerente di un “io”, inteso come sorgente di ogni senso di sé e come ricettacolo di ogni esperienza mentale e sensazione esteriore. È proprio la scoperta diretta dell’assenza di un “io” a permettere di accedere all’esperienza diretta e non-concettuale della realtà del Brahman, del Sé, il quale si trova al di là dell’“io” stesso come “Testimone” silente di ogni pensiero, azione, sensazione. È dunque l’implosione dell’“io” a permettere di accedere alla dimensione che si trova al di la di esso.
È questo metodo a permettere di obliterare in maniera radicale e definitiva la distinzione tra “conoscitore”, “conosciuto” e “conoscere”: secondo la prospettiva del Vedanta l’unico processo di conoscenza autentico e possibile è quello in cui non esiste più differenza tra chi conosce e ciò che è conosciuto. In questo senso dunque conoscere il sé, il Brahman, altro non è che divenire interamente il Brahman stesso, identificarsi integralmente con esso. E ciò, con tutto quanto consegue riguardo al significato stesso da attribuire al termine “esperienza”, dal momento che, come già detto in relazione alla visione, ora non esiste più propriamente un “qualcuno” che esperisca un “qualcosa”, un “qualcosa” esperito da un “qualcuno”, né tantomeno un elemento intermedio che possa essere definito come “esperienza”. Dal momento che non sussiste più una dualità, il conoscere diventa dunque unicamente un auto-conoscersi: quello del Sé che si conosce attraverso se stesso. In questa stessa dimensione non-duale, il Sé si palesa nella sua condizione originaria: quella ovvero di Consapevolezza auto-risplendente; di consapevolezza spontanea e auto-generata, che esiste senza che nulla di esterno intervenga per renderla consapevole. Come dicevamo all’inizio di questo scritto: “trenta strofe per esporre un intero insegnamento”. Sì, trenta strofe imprescindibili e necessarie per chi voglia accostarsi agli insegnamenti di Maharshi in modo genuino e corretto.
Ramana Maharshi, “L’essenza dell’insegnamento”, Paris, Edizioni Le loup des steppes
Luca Violini