Sul Bestiario di Roma di Alfredo Cattabiani – Giovanni Sessa
“Sacer” e “Sanctus” nella tradizione giuridico-religiosa romana – Giandomenico Casalino
Nella cultura, in senso lato, indoeuropea e quindi in tutte le sue varie e diversificate ramificazioni linguistiche, le parole “sacro” e “santo”, con i loro categoriali semantemi, sono, ovviamente, atteso il campo significante a cui appartengono, che è quello che noi chiamiamo “religioso”, abbastanza contigue, anzi confinanti.
Infatti, santo (greco: òsios; sebastòs/ latino: sanctus) ha in sé il valore del “confine”, di quella dimensione visibile dell’Invisibile che segna, appunto, il limite, che è posto o che comunque sta a protezione e ad indicazione della dimensione del totalmente Altro che è il Sacro, essendo ciò che è riservato esclusivamente per gli Dei. In tale intreccio di semantemi, il Santo, che appare quasi come un preambolo o come un avviamento al Sacro, è anche il Puro e cioè il purificato (tenendo a mente che l’etimo di codesta parola è pýr che in greco vuol dire: fuoco!). Qui risiede la ragione per cui nella parte orientale dell’Impero, il titolo di Augusto è tradotto in greco con la parola Sebastòs: il Santo!
Nella mia terra, che è il Salento, gli anziani ancora qualificano la “morte” come “santa” e parlano di “santa morte”! Cosa significa ciò? Ritengo che faccia riferimento, secondo la nostra arcaica cultura contadina, alla verità che la “morte”, come evento che segna un passaggio, una mutazione di essere e di dimensione, tanto nello spazio che nel tempo profani, è il confine ultimo, valicato il quale, si entra nell’Altro che è il Sacro e cioè il Mistero!
Ciò non fa che richiamare tutti i complessi rituali che accompagnano, da sempre ed in tutte le Civiltà, l’evento morte, sentito proprio come passaggio di un limite che segna il transito verso l’Invisibile; da qui, per esempio, l’antica consuetudine, già vigente nell’abitazione del defunto, quando lo stesso era deposto in casa per la pietà dei familiari, di coprire tutti gli specchi ivi esistenti onde impedire che le Potenze dell’Altro, i Mani dei Romani, potessero valicare il confine attraverso lo specchio, porta che, da sempre, in tutte le mitologie e culture religiose, conduce da un Mondo ad un Altro: è abbastanza nota la centralità dello specchio e del suo alto valore simbolico in tutte le Tradizioni iniziatiche, quale “passaggio” o presa di coscienza (visiva) dello stesso in quanto apertura per il mutamento da uno stato ad un altro dello Spirito! È sufficiente riflettere sulla parola latina speculum, da cui il nostro “specchio”, e sul fatto che è letteralmente sovrapponibile alle parole speculazione e speculare che dallo stesso derivano, e che, oltre ad essere in Hegel sinonimi di mistico, fanno proprio riferimento, in buona sostanza, nel lessico filosofico, alla Sapienza suprema che ha per oggetto il rapporto e l’effettuale riconoscimento dell’Io quale Sé nella immagine speculare riflessa.
Quanto sopra esplicitato, in via abbastanza generale, può favorire l’ingresso del nostro discorso nella dimensione spirituale, in quanto Realtà vivente, della Tradizione giuridico-religiosa romana che, ed è bene rammentarlo, è, nella sua esperienza attivo-intensiva del Sacro, come afferma Evola[1], di natura esclusivamente magico-religiosa poiché è qualificata da un atteggiamento attivo dello Spirito il quale, mediante il Rito e cioè l’Ascesi dell’Azione, crea letteralmente la realtà fenomenica per mezzo di tale Azione su quella numenica; e ciò è totalmente estraneo ad ogni ritualità di natura sia teurgica che misterica, per la semplice ragione che, come credo di aver dimostrato nei miei libri e come insegnano, nel ‘900 ed oltre, sia Julius Evola, Mircea Eliade e Karoly Kerenyi, che decine di studiosi del Diritto Romano, della Religione e della fenomenologia della spiritualità di Roma antica quanto della medesima antropologia culturale romana, anche sotto il profilo di natura filologico-linguistica, essendo assente nella Romanità, la mediazione mitologica, che è la dimensione animico-fantastica sia teogonica che cosmogonica, del Sovrasensibile, l’Io è in diretto, attivo ed immediato contatto con le forze dell’Invisibile solo ed esclusivamente con il Rito che, attesa la sua natura primordiale, è nella sua immodificabile operatività ed ineluttabile efficacia magica, molto simile a quello Vedico, essendo ambedue qualificati proprio dal rapporto necessario e pericoloso, asciutto ed essenziale tra l’Io ed il Metafisico, rapporto che si fonda sulla Conoscenza esoterica della specularità eziologica sussistente tra l’Invisibile e il visibile. (Vedi la Dottrina che emerge dai Rituali e dai Formulari degli stessi Sacerdozi Pubblici: Auguri, Feziali, Flamini).
Nella Romanità il concetto di santo acquisisce, pertanto, una specificità tutta particolare che è figlia proprio di quanto abbiamo sopra sinteticamente rammentato; nel Digesto (I, 8,9, par. 3), infatti, vi è tale categorica definizione: “Proprie dicimus sancta quae neque sacra, neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut leges sanctae sunt…”!
Al fine di poter comprendere il senso profondamente romano di tale massima giuridico-religiosa, è necessario confrontare il significato di Santo ivi esplicitato con quello di Sacro, che viene definito però in via negativa e che noi invece cercheremo di esplicitare.
Mediante il Sacrificio, che è il Rito per eccellenza, infatti, si “crea” il Sacro (greco: Hieròs; latino: Sacer), che per natura o per decisione, è riservato, separato per gli Dei: nel sacrificium, l’animale, la victima (parola che ha la stessa radice di weihen) “è estratta dal suo uso consueto ed offerta all’Invisibile destinatario”[2]; e chi viola determinati ruoli o regole è “consecratus” cioè investito dalla Forza (infera in questo caso) di cui è pregno quel luogo od a cui è consacrata una legge, luogo o legge difesi cioè sancti. Tanto che nell’antica legislazione romana la pena era applicata dagli stessi Dei che intervenivano come vendicatori. Il principio in simili casi può essere formulato così: “qui legem violavit, sacer esto”, “colui che ha violato la legge sia sacer”; di qui l’uso del verbo sancire per indicare questa clausola che permetteva di promulgare la legge. Dalla Tradizione pertanto risulta che sancire vuol dire delimitare il campo di applicazione di una disposizione e renderla inviolabile, mettendola sotto la protezione degli Dei, richiamando sull’eventuale violatore l’inevitabile castigo divino: infatti si dice Via Sacra, mons sacer, dies sacra, ma sempre murus sanctus. Pertanto è sanctus il muro, ma non il territorio che il muro circoscrive che è detto sacer; è sanctum ciò che è proibito per mezzo di alcune sanzioni. È bene chiarire che “il fatto di entrare in contatto con il Sacro non porta di conseguenza lo stato di sanctus; non vi è sanzione per colui che, riguardo al sacer, diventa egli stesso sacer; è bandito dalla comunità, non lo si castiga e nemmeno colui che lo uccide. Si direbbe che il sanctum è ciò che si trova alla periferia del sacrum, che serve ad isolarlo da ogni contatto”[3].
A questo punto, la massima del Digesto richiamata, appare alquanto chiara ed inequivocabile, solo che la si interpreti in senso tradizionale e cioè organico e spirituale: essa, infatti, preliminarmente spazza via tutto lo sciocchezzaio messo in campo da alcuni studiosi moderni, intorno alla cosiddetta “ambivalenza del Sacro”, conseguenza del fatto che, evidentemente, non riescono a comprendere che, onde avvicinarsi al senso delle culture tradizionali, è necessario uno sforzo di umiltà ermeneutica affinché si tenti di guardarle con i loro occhi e non con quelli moderni, essendo questi del tutto impotenti ad entrare nel mondo spirituale di tali Civiltà, oltre che pericolosamente ed antiscientificamente mistificatori; pertanto la pretesa “ambivalenza” non solo non esiste ma si tratta di ben altro! Infatti il Sacro che è, come abbiamo visto, una sfera, una dimensione Invisibilmente visibile del Mondo, una Forma, una Idea, una Essenza della Vita al massimo grado di potenza, circoscritta e difesa da una “sanzione” quindi sancita, può risolversi in damnum (italiano: dannati e cioè coloro che hanno violato la legge divina), in scatenamento di forze Infere che investono e “consacrano” il fallito (vedremo il motivo per cui è da usare questo termine).
Certamente l’ignoranza moderna non capirà mai perché il “consecratus” sia tale agli Dei Inferi, in seguito al suo avvenuto contatto irrituale con il Divino e perché il sanctus, come ci documenta Cicerone[4], sia da riferirsi ai Manes e quindi agli Inferi stessi. Noi sappiamo però che la Forza Universale (simboleggiata dalla Tradizione con l’Albero della Vita) è depositaria della Scienza del Sovrannaturale, che è la potenza Femminile definita nella Tradizione indù: Çakti e nella Tradizione Ermetica: Mercurio ignificato o lunare, ma simultaneamente, in modo “ambivalente”, è fonte di pericolo e di morte[5] (gli Dei Mani); ciò ha il significato che per chi la sublima e fissa con il Rito, si risolve nel Sacro luminoso il quale concede l’Immortalità olimpica; chi commette, invece l’errore (non il peccato!) di affrontare la Forza fuori dal Rito, viene travolto da ciò che per l’esecutore può essere solo caotico ed oscuro, proprio perché non ha suggellato ed invertito verso l’Alto la Forza medesima. Ha commesso un falso!
Tale è la ragione per cui innanzi ho usato la parola fallito, cioè caduto (dal latino fallĕre = cadere[6]); al contrario, “vero” ha il significato di Vittorioso – sia a livello giuridico che a livello religioso, cioè di realizzato, che deve essere creduto, in termini esoterici: ciò che ha Vita da sé, ciò che è; “falso”,invece, ha il significato di ciò che non è. In termini filosofici, l’uno è l’Essere e l’altro è il divenire.
La sapienza giuridico-religiosa della Tradizione Romana si fonda pertanto sulla necessità rituale che lo Spirito si riconosca e si identifichi, nell’atto del Rito, con la Realtà altrettanto spirituale di forze nude e pure, Mondo in cui la limitata e limitante dualità moralistica di bene e male si dimostra illusione delle passioni, delle fedi o delle leggi dogmatiche, aventi la sola funzione essoterica relativa alla buccia e non al nocciolo. Da tali forze caotiche e prive di Forma, il Romano in tutta la sua vicenda storica, ha tratto, creandoli, con la virtus magica della Parola e del Gesto[7], ordinandoli, rendendoli santi, difesi e quindi governandoli, gli Ordinamenti, le Leggi, l’Impero che sono lo specchio del Cielo, cioè Juppiter Optimus Maximus.
Note:
[1] GRUPPO DI UR (a cura di), Introduzione alla magia, Roma 1971, vol. III, pp. 219 ss..
[2] G. DUMEZIL, La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 126; cfr. anche V. ROTONDI, Il sacrificio a Roma, Roma 2013; C. SANTI, Alle radici del sacro. Lessico e formule di Roma antica, Roma 2004; IDEM, Sacra facere, Roma 2008.
[3] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino 1970, vol. II, pp. 427-8;
cfr. R. FIORI, Homo sacer, Napoli 1996.
[4] K. KERENYI, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Roma 1951, p. 76.
[5] J. EVOLA, La tradizione ermetica, Roma 1971, pp. 17-8.
[6] G. DEVOTO, Avviamento alla etimologia italiana, Firenze 1979.
[7] G. CASALINO, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2003.
Giandomenico Casalino