Sul Bestiario di Roma di Alfredo Cattabiani – Giovanni Sessa
I Greci e la scoperta della vacuità – Emanuele Franz
La mancanza dell’Io nel pensiero Greco
Sussiste una profonda differenza fra la concezione dell’uomo omerico e quella del mondo latino e, se vogliamo, del greco dell’età ellenistica. Questa differenza sta nel diverso modo di intendere l’Io cosciente, la volontà, e ciò trapela un profondo mutamento che deve essere accaduto nel pensiero. Il Greco non conosce l’Io come lo intendiamo noi oggi, come una individualità distinta e volente. Non esiste, in greco antico, una parola che possa tradurre il termine “volontà” o la “voluntas” latina. Nell’uomo omerico si possono distinguere diverse componenti, senza che peraltro venisse “percepito” un tutto unitario fra queste, come se mancasse un centro individuale. Si può ricordare:
-σῶμα (sòma): il corpo
-ψυχή (psyché): il soffio vitale
-θυμός (thymòs): il centro affettivo
-φρήν (fren): il centro razionale
-νοῦς (nùs): l’intelligenza
Thumos (anche “thymos”, in greco: θυμός) è una parola greca antica che esprime il concetto di “anima emozionale”. Nelle opere di Omero, thumos fu utilizzata per indicare le emozioni, il desiderio, o un impulso interno (movimento, agitazione). Thumos era una possessione permanente di un uomo vivente da parte di un Dio, a cui apparteneva il suo pensiero e sentimento. Quando nelle opere omeriche un eroe è sotto stress emotivo può esternalizzare il suo thumos, conversando con esso (come se esso fosse un’altra persona).
Il thumos, che passerà in seguito a significare qualcosa di simile all’anima emozionale, designa semplicemente il movimento o l’agitazione. Quando un uomo cessa di muoversi, il thumos abbandona le sue membra. Ma in qualche modo è anche simile addirittura a un organo; quando infatti Glauco prega Apollo di alleviare il suo dolore e di dargli la forza di aiutare l’amico Sarpedonte, Apollo ascolta la sua preghiera e «infonde vigore nel suo thumos» (Iliade, XVI, 529). Il thymos può dire a un uomo di mangiare, bere o combattere. Diomede dice in un punto che Achille combatterà «quando nel petto il thumos gli parla e un dio lo sospinge» (IX, 702 sg.). Curioso è l’uso che Omero fa dei termini per riferirsi al “corpo”. Alcune particolarità vennero notate fino dai tempi di Aristarco. Il termine σῶμα (Soma), usato in seguito per designare i corpi dei viventi, come notato da Aristarco non è mai da Omero usato per questi, ma solo per i morti, tanto da assumere il significato di “cadavere”. Il termine δέμας trova nei poemi omerici un vasto utilizzo: nonostante secondo Aristarco possa essere tradotto in sostituzione di σῶμα, Omero fa un uso di questo termine per disegnare più la figura e l’aspetto che la materia.
È significativo notare come anche nell’arte prima del V secolo a.C. il corpo fosse rappresentato come una pluralità, alla stregua di quanto è caratteristico dei disegni puerili. Mentre però in queste ultime raffigurazioni è il busto l’elemento centrale della figura, in quelle risalenti al periodo geometrico dell’arte greca elementi cruciali della figura sono gli arti, i muscoli, che appaiono l’uno separato dall’altro e congiunti con giunture. Come se appunto non venisse percepito un tutto unitario e coeso. Anche per dire per esempio “ho fatto un sogno”, come diremmo noi, in Greco era più “ho visto un sogno”, poiché esso non era interno ma esterno all’uomo.
Questo è un fatto profondo e significativo. La parola greca εἴδωλον ( Eidolon) il cui significato è figura, immagine oppure fantasma o spettro, confluì poi nella parola Eidos (εἶδος) nel senso di forma, simulacro, che sarà poi l’Idolo latino. Nell’Opera dello scrittore greco Stesicoro (VI Secolo A.C) intitolata Palinodia, si dice che a Troia non giunse la vera Elena, bensì la sua immagine, il suo Eidolon, fabbricato appositamente dal Dio Ermete.
Da ciò noi possiamo constatare che per il pensiero omerico non solo l’Io, come forza unificante e fondante dell’Essere, appariva priva di qualsiasi consistenza, ma il corpo stesso appariva ai suoi occhi privo di qualsiasi materialità come lo intendiamo noi oggi, bensì era una figura di sogno. È proprio del pensiero moderno associare per forza di cose il corpo alla materia, quasi a farne sinonimi, ma per il pensiero greco non fu così. Il vivente, il corpo vivente, non era percepito come un corpo materiale, ma come un sogno vuoto, fatto di apparizioni, di lampi che giungevano dagli Dei. Un corpo senza materia. Ciò è profondamente in assonanza con il pensiero orientale. E mentre molti studiosi insistono a ritenere che il mondo Greco, quello della Ragione e dell’Essere, della Forma e delle Idee, è ben lungi dal pensiero orientale, che voleva il mondo una finzione, quella di Maya, con questa analisi invece si vuole proprio affermare il contrario: che al Greco antico è apparsa la natura ultima dell’universo come illusione.
Per il greco il mondo non è fatto di “cose” ma egli invece lo percepisce come un insieme di apparizioni. Gli Dei omerici inducono agli Eroi delle immagini, delle visioni, quasi che il mondo, dalla sensibilità dell’uomo omerico, non venisse percepito come un qualcosa di definito nel peso e nella tangibilità. Il mondo è apparizione, non un insieme di oggetti. Non è assolutamente un caso che il greco abbia inventato la Tragedia, esempio dei più stupendi e lucidi di questa verità. Nel teatro, nel Theatron, avveniva la messa in scena dello stesso universo, e quindi l’Essere doveva apparire come un dramma agli occhi del Greco, come una rappresentazione, come uno spettacolo senza una reale e ultima consistenza, perché tutto, come avrebbe detto Esiodo, fu generato dal Χάος (Caos) e da esso la Notte infinita e l’Erebo che generano ogni cosa. E i Miti, se vogliamo aggiungere, sono enfi di quanto fosse particolarmente significativa la finzione quale tessuto stesso dell’esistente.
L’intrinseca finzione del mondo
Che i fatti, le cose, gli eventi, sussistano come apparenza, finzione, illusione, ci è già esplicitato in modo eloquente dal pensiero indù. Il mondo è Maya, artificio, illusione, vacuità. Per un qualsiasi buddhista le cose e gli accadimenti sono intrinsecazione del nulla, e non hanno consistenza ed oggettivazione. Si crede, come detto, che questa sia una prerogativa orientale, ma non è così. l Greco Gorgia affermava che: “Nulla esiste e se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile”
Già il mondo della grecità classica ci dice il ruolo che gioca la finzione nella fondazione dell’universo. L’uomo greco, nella sua incomparabile sensibilità, aveva compreso l’importanza della finzione nell’origine delle cose. E ce ne fornisce chiari esempi nel mito. Si pensi al ruolo che ha assunto la simulazione, l’inganno, la finzione, nelle mitologie e nelle cosmogonie antiche. Nelle teogonie greche, ad esempio, l’inganno ha un posto di rilievo e partecipa alla spiegazione del mondo. Eschilo, Sofocle, Euripide, Esiodo, ci hanno narrato con incomparabile grandezza, quanto importante fosse il ruolo della simulazione nell’origine del mondo. L’illusione e la dissimulazione assumono un aspetto fondamentale nella struttura dell’Essere, senza le quali il mondo non potrebbe essere così come lo conosciamo.
Crono, con l’inganno evira suo padre Urano, su suggerimento di sua madre Gaia. Questo fatto avvenne quando ancora esisteva solo il cielo e la terra ( Gaia e Urano ). Questo inganno di Crono ha permesso il formarsi e lo svilupparsi della successiva complessità del mondo. Dalle gocce di sangue di Urano nasce poi Afrodite, Dea dell’amore e della bellezza. In seguito Crono riceve da Gaia la profezia che uno dei suoi figli lo avrebbe spodestato, detronizzato. Crono decide allora di divorare ogni bambino avuto con Rea, appena nato, ancora in fasce. Rea, per salvare l’ultimo nato, medita un inganno, una frode, una menzogna, e usa contro Crono le stesse armi che servono a definirlo, perché Crono è un Dio di astuzia, di menzogna e di doppiezza. Rea partorisce il figlio in segreto e fa inghiottire a Crono un sasso avvolto nelle fasce. Il figlio era Zeus, e con la simulazione l’ordine del mondo viene costituito. Il lento e inesorabile passaggio dal Caos al Kosmos avviene grazie alla finzione.
L’astuzia è nominata dal mito con il termine Metis. Meti è la prudenza, quella forma di intelligenza capace di escogitare in anticipo gli espedienti necessari a ingannare chi si ha di fronte. Meti è la grande divinità primordiale che, emergendo dall’uovo cosmico, dall’indistinto, porta in sé la semenza di tutti gli Dei, il germe di tutte le cose, e porta alla luce, in quanto prima generatrice, l’universo intero nel suo corso successivo e la diversità delle sue forme. Zeus, divenuto detentore del potere universale, del Cosmo, dell’ordine, era Dio degli Dei. Zeus però voleva divenire ancora più invulnerabile e decise di conquistare Meti stessa. Limitandosi a congiungersi con lei non si sarebbe garantito un pieno potere per cui decise di ingannarla, decise cioè di voler fingere con la divinità della finzione stessa, convinto di poter vincere la simulazione con la simulazione. Meti poteva assumere infinite sembianze e forme, perché possiede il potere della metamorfosi ed ha la capacità di assumere qualsiasi aspetto e di fingersi qualsiasi cosa. Zeus tramò per lei un inganno spietato. Con disinteresse e noncuranza le chiese se è proprio vero che poteva trasformarsi in ogni cosa, e lei rispose di si. Allora Zeus, deciso a metterla alla prova, le chiese se era in grado di trasformarsi in una goccia d’acqua. Meti, ignara della trama ordita per lei, si trasformò in una piccola goccia d’acqua e Zeus ne approfittò velocemente per inghiottirla. Così facendo Zeus era diventato Meti stessa. Non a caso da questa unione nacque poi, dalla testa di Zeus, Atena, Dea della Saggezza, quasi che la Saggezza il Greco l’abbia voluta riporre nel fatto che il mondo ha origine da una totalità di forme e di sembianze, di Eidolon che appaiono e scompaiono come in un sogno.
Come si vede la finzione, l’apparenza e l’artificio, hanno assunto, nella sensibilità del greco antico, un posto privilegiato che concorre a determinare l’intera struttura del mondo, dell’universo e della psiche. Come si può anche osservare, l’astuzia, nel mito, non è nell’uomo e nelle cose, ma si manifesta nell’uomo e nelle cose. L’uomo che simula non è semplicemente un uomo che simula ma è un uomo che ha ricevuto in sé la Metis. La simulazione viene sempre da fuori: è nella psiche ma non è la psiche, è nelle cose ma non è le cose. La Metis, così come è intesa dal greco, è una forza ultraterrena e indipendente, autonoma e assoluta, originaria. L’uomo può, conoscendone le leggi e carpendone i segreti, giungere ad una più alta conoscenza di sé stesso ed acquisire un potere reale di trasformazione di sé e del mondo. Noi possiamo quindi affermare che la grecità è riuscita a vedere l’esistenza come un gioco di riflessi inconsistenti di forme, e che tessendo a piacimento queste forme tutto diviene possibile. Tutto è apparenza, sogno, indeterminazione, inconsistenza, eppure esistenza. Tutto è illusione, e il mondo si origina da questa illusione così come quando Dioniso, specchiandosi, vede riflesso il mondo.
Bibliografia di riferimento:
-Julian Jaynes -Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza-
-Eric R. Dodds -I Greci e l’irrazionale-.
-H.Diels e W.Kranz; Presocratici testimonianze e frammenti, Bompiani 2015.
-Walter Burkert; La religione greca di epoca arcaica e classica.
-Angelo Tonelli (a cura di); Tutte le tragedie – Eschilo; Sofocle; Euripide.
-Esiodo, Teogonia.
Emanuele Franz