I Rosa+Croce quale archetipo dell’esoterismo occidentale – Umberto Bianchi
Idee sull’aldilà in Mesopotamia – Marco Pucciarini
Scarse e incerte sono le notizie sull’escatologia dei tempi propriamente sumerici1, anche se si deve supporre che i temi della morte e della sopravvivenza dovettero essere notevolmente sviluppati. Dai testi si ricava l’impressione che per i Sumeri l’interesse religioso si focalizzasse attorno ai valori del benessere terreno, della forza generativa, della vita materiale che il fedele, attraverso la preghiera o mezzi magici, tendeva a prolungare il più a lungo possibile. La sorte che tocca all’uomo dopo la morte, sembra essere genericamente intesa come una tragica e inesorabile perdita della propria presenza nel mondo2 . Al sopraggiungere della morte, ciò che restava di ciascun uomo scendeva, al pari di un’ombra, in un luogo sotterraneo della terra, e giù, insieme a tutta la grande massa dei trapassati, cominciava a vivere una vita priva di ogni consolazione, non potendo godere neppure della luce del sole, delle gioie del sesso e dei cibi prelibati. Raccolte nello arallu, una landa stepposa avvolta di oscurità, le ombre umane, etemmu (3), abitano in una città cinta di mura e fornita di porte custodite da demòni; una città polverosa, piena di immondizie, e fornita solo di acqua sporca. I rifiuti e l’acqua sporca sono, inoltre, il cibo normale delle ombre, eccetto che i parenti non pensino a provvedere qualche cosa di meglio. Una condizione alquanto migliore esisteva soltanto per chi avesse lasciato sulla terra dei figli; solo dalle cure dei figli, infatti, i morti potevano usufruire di un qualche sollievo. In due redazioni, sumerica e accadica, è giunto a noi il mito della Discesa di Inanna agli Inferi (4). Pubblicatati un primo momento, da frammenti parziali, la redazione sumerica è stata fatta oggetto di nuove ricerche da parte di S. N. Kramer, che ne ha date tre ricostruzioni. E tre sono le recensioni in cui è pervenuta la redazione accadica, dove la dea, che scende agli inferi, non è più Inanna, la dea sumerica dell’amore, ma la corrispondente dea semitica, Ishtar. La prima delle tre recensioni accadiche è quella di Ninive, che si è conservata in tre tavole neo-assire della Biblioteca di Assurbanipal; la seconda è quella di Assur, più antica della precedente, e la terza (conservata solo per l’inizio) è quella contenuta in alcune tavole di Assur e in altre di Sultantepe, risalenti a Tiglatpileser I (1112-1074 a.C).
In entrambe le redazioni, sumerica e accadica, la trama è uguale, sebbene per la versione accadica, più che di una traduzione si debba parlare piuttosto di un vero e proprio rifacimento La sintesi che segue è la parte comune alle due redazioni, senza tener conto delle varianti. Inanna, che è “regina del cielo”, decide di far visita, nonostante i pericoli e i divieti, alla “terra senza ritorno” ( kur-nu-gi4-a, in accadico irṣit lā tāri), dove è regina sua sorella Ereshkigal. Ornatasi di quanto di meglio, in vestiti e gioielli, le offre il suo guardaroba, e dopo aver date le necessarie istruzioni al suo segretario, Ninshubur, perché intervenga in caso di necessità, la dea giunge alle porte del regno sotterraneo, bussa e pretende che le porte le siano subito aperte. Il portinaio, fedele alle consegne ricevute, chiede istruzioni alla sua regina, Ereshkigal. Questa udito che si tratta di sua sorella, ordina di farla entrare a condizione, però, che anche per lei siano rispettate le leggi comuni. Sette sono le mura che circondano la città, e sette le porte che occorre varcare prima di giungere al palazzo reale A ognuna delle porte, il portiere si avvicina a Inanna e la priva di un qualche gioiello e vestito, sì che quando giunge al cospetto della sorella, si trova priva di ogni emblema della regalità e della seduzione. Contro di lei, quindi, Ereshkigal, che siede sul trono circondata dai sette Anunnaki e dai giudici infernali, fissa i suoi “occhi di morte”. Inanna si sente venir meno, e spira. Il suo cadavere, freddo e stecchito, viene appeso a un uncino. Passato il terzo giorno, Ninshubur corre per chiedere soccorso agli dèi riuniti in assemblea, e poi a Enlil e a Nanna, i quali però non si commuovono affatto per la sorte toccata alla sua signora. Solo il dio di Eridu, Enki, appresa la notizia, si mette all’opera per salvare la capricciosa dea. A questo scopo, egli forma due particolari esseri, molto simili alle ombre, e, dopo averli muniti di “cibo di vita” e della “acqua di vita”, li invia da Ereshkigal. Giunti sul posto, i due messi compiono i necessari riti per far rivivere Inanna. Tuttavia, è ugualmente difficile riportarla nel regno dei vivi, perché i demoni esigono che un altro dio, in cambio, occupi il suo posto. Inanna promette di trovarne qualcuno, e solo così può uscire, accompagnata da alcuni demòni, incaricati ‘ di impadronirsi del sostituto. Dopo varie ricerche la dea indica come sostituto il suo compagno, Dumuzi, colpevole di non aver osservato il lutto per la sua scomparsa. Ma Dumuzi si rivolge a Utu (Shamash) e riesce a trasformarsi in serpente e a scampare agli artigli dei demòni. Scoperto e raggiunto dai demòni, ottiene da Utu di essere trasformato in gazzella, sin tanto che, dopo altre scoperte e trasformazioni, è raggiunto e torturato dai demòni che lo trascinano nel loro regno. Il racconto si incentra (le interpretazioni naturistiche sembrano riduttive) sul risalto dato alla grande legge universale della morte, che sovrasta anche i capricci di una dea. Neppure gli dèi possono fare nulla contro di essa. Per quanto, anzi, immortali, essi stessi diventano mortali qualora si permettano di avventurarsi nel regno della morte. L’uomo mesopotamico dunque, quando considera la morte, la valuta per il suo peso di destino inevitabile. Niente, neppure la potenza degli dèi, può sottrarre l’uomo, dopo la morte, dal suo destino di triste e oscura sopravvivenza. E reagisce contro di essa con l’amaro rimpianto, dei beni a cui dovrà rinunciare e, solo più raramente (specialmente nei testi mitologici di Ghilgamesh, Etana, Adapa), con il sogno dell’impossibile conquista di una vita immortale. Sconsolato e sconsolante è, nel suo contenuto di fondo, il poema nazionale che narra e celebra le avventure e le imprese dell’eroe Ghilgamesh5 II poema, nella forma in cui è stato ritrovato nella biblioteca del re assiro Assurbanipal (669-629 a.C.), si compone di 12 tavolette (dovrebbero corrispondere ad altrettanti “canti”), di circa 300 versi ciascuna. Ma la forma, nella quale fu ritrovato, non era se non il risultato di un lungo processo compositivo e redazionale, cominciato sin dai tempi sumerici (ca. 2500 a.C.). Dal punto di vista letterario ed estetico, il poema non presenta, in ragione di varie sconnessioni narrative, là perfezione che offrono, invece, alcune opere minori. Tuttavia, nessun’altra opera gli è sicuramente pari per la varietà dei temi e per il vigore rappresentativo, e, molto probabilmente, anche per la sua antichità E’ più che probabile, infatti, che la sua origine, costituita anche dalla messa insieme di precedenti racconti sumerici (es., Ghilgamesh e il toro celeste, Ghilgamesh e Akka, Ghilgamesh e Enkidu)6, sia da attribuire, nella sua prima stesura, alla metà del II millennio. Il poema narra le avventure dell’antico re di Uruk, narrate in parte già dagli antichi racconti sumerici7, e quelle del suo prima nemico e poi amico Enkidu. Ma lo spirito che anima il grande racconto accadico è diverso, affiorandovi sentimenti che mancano completamente nei precedenti racconti sumerici, come il problema del male, la nozione della “colpa”, la concezione della morte8.
L’autore, che fu un semita, fece uso delle fonti sumeriche con grande libertà e con la sensibilità religiosa della sua comunità. Non è, forse, del tutto esatto affermare che l’unico intento del poema sia di presentare l’uomo in cerca della felicità e della sua impossibilità a trovarla. In esso hanno rilievo diversi altri temi che direttamente non si richiamano a quello della felicità. Quale, per esempio, il tema del contrasto tra vita urbana e civile (la “cultura”), e vita selvaggia nelle steppe (la “natura”), rappresentate rispettivamente da Ghilgamesh e da Enkidu (tav. I-II)9; il tema dell’avventura rischiosa come alternativa e sfogo degli istinti di lotta e eroismo (tav. III-V)10; e, inoltre, il tema dell’autonomia, da parte dell’uomo, nei confronti della stessa divinità, o almeno di fronte alle prospettive di una vita comoda offerte dalla dea Ishtar (tav. VI).11 E da capo a fondo un particolare rilievo ha pure il tema dell’amicizia12. Il poema si presenta con un chiaro e consapevole impianto etico e dottrinale che lo rende di indubbio interesse per la nostra ricerca. Da almeno la metà del racconto (tav VII) cominciano le considerazioni intorno al senso triste e sconsolato della vita umana. Avvertito da alcuni sogni premonitori che la morte gli era ormai vicina, Enkidu maledice il giorno in cui fu introdotto alla vita civile, e, dopo aver versato amare lacrime, muore, lasciando (tav. VIII) un Ghilgamesh che non sa, neppure lui, rassegnarsi al destino di morte. Superare il triste traguardo diventa da allora per Ghilgamesh il supremo degli impegni, costi quel che costi (tav. IX). A questo scopo decide di recarsi da un suo antenato, Utnapishtim13, che, favorito dagli dèi al tempo del diluvio, fu da essi trasferito nelle isole dei beati e da essi ebbe pure il dono dell’immortalità14. Il viaggio è lungo e faticoso15. Raggiunto il monte Mashu e le porte del sole (l’estremo oriente) custodite da uomini-scorpioni, è da essi dissuaso a proseguire il rischiosissimo cammino e a non entrare nella lunghissima galleria della montagna, per la quale si accede alle isole dei beati16. Ghilgamesh prosegue e, traversata la montagna, entra (tav. X) nel giardino della dea Siduri (la Ebe e la Calipso dei miti greci)17, la quale, udito lo scopo del viaggio, lo scongiura ancora di non proseguire, perché nessuno, eccetto il dio Shamash (Sole), è mai riuscito ad andare oltre, e perché la dimora di Utnapishtim è circondata dalle acque della morte, e l’unico uomo che attraversi quel mare insidioso è il traghettatore di Utnapishtim, Urshanabi18. Molto più conveniente sarebbe quindi per Ghilgamesh non tentare, ma rassegnarsi piuttosto alla sorte comune a tutti gli uomini, e di godere di ciò che la vita offre di meglio: mangiare, divertirsi, gioire. Ma ancora una volta l’eroe si ostina a tentare: Siduri gli indica allora, dove si trovi il nocchiero, Urshanabi, esortandolo a seguire le sue istruzioni. Giunto finalmente alla residenza del suo privilegiato antenato, la prima e cruciale domanda che gli rivolge è quella di sapere come egli abbia potuto ottenere dagli dèi l’immortalità. Per rispondere, Utnapishtim prende a raccontare al re di Uruk la storia del diluvio (tav.XI), perché fu ai tempi di quella catastrofe che egli ottenne dagli dèi il particolare favore. Il racconto, che quando fu scoperto sorprese per la sua notevole somiglianza con quello biblico (Gn cc.6-9), costituisce come la cornice del tema centrale della dottrina mesopotamica del destino riservato agli uomini. Quasi, infatti, traendo le conclusioni del racconto del funesto avvenimento, Utnapishtim cerca ancora di convincere l’eroe, che pure è riuscito a raggiungerlo dopo inaudite difficoltà di viaggio, dell’ impossibilità di ottenere quanto desidera. Poi, cedendo alle insistenze, e come a titolo di prova, propone a Ghilgamesh di mantenersi sveglio per sette giorni; ma la prova non riesce. L’eroe, stanco dal viaggio, cade molto prima del tempo in un sonno profondo. Resosi conto del fallimento, piange e si dispera. Il pianto muove a compassione la moglie di Utnapishtim, la quale convince il marito, a comunicare all’eroe il segreto circa l’esistenza di una “erba di vita”, che porta il nome “il vecchio diventa giovane” e che si trova in un particolare tratto del mare sulla via del ritorno. Accompagnato quindi da Urshanabi, Ghilgamesh giunge a quel tratto di mare. Per potersi calare meglio si lega delle pietre ai piedi; arriva in fondo, coglie l’erba, toma a galla e, soddisfatto, riprende da solo il cammino del ritorno. Strada facendo incontra uno stagno d’acqua dolce e fresca, e, lasciando l’erba sulla riva, vi si immerge per prendere un bagno ristoratore. Mentre egli però è in acqua, un serpente, che ha fiutato l’erba, sale fuori dalle onde, la mangia perdendo immediatamente la sua vecchia pelle. Per Ghilgamesh è dunque davvero finita ogni speranza:
“…per che cosa si sono affaticale le mie braccia? Per quale scopo è scorso il sangue nelle mie vene? Non sono stato capace di ottenere alcunché di buono per me stesso”.
Come ogni uomo egli pure deve accettare il destino di morte e accontentarsi di sopravvivere nel ricordo dei posteri: ciò che fa costruendo le imponenti mura di cinta della sua città, di Uruk. Qui terminava la primitiva stesura del poema. Soltanto infatti, in un secondo tempo fu aggiunta l’ultima tavola (tav.XII), che non è neppure originale, bensì la traduzione della seconda parte del poemetto sumerico che narra la discesa di Enkidu agli Inferi. E’ un’aggiunta fatta d’altra parte per semplice giustapposizione, tanto che vi si fa parola di Enkidu come ancora vivente, mentre secondo il poema è già morto da tempo. L’aggiunta comincia dunque là dove Gilgamesh si lamenta, disperato, della perdita di due strumenti, il pukku (“tamburo”?) e il mokku (“bacchetta”?) che gli erano scivolati dalle mani e caduti giù nel profondo. Enkidu si offre a compiere l’impresa. Temendo però che all’amico possa capitare qualche brutta sorpresa, Ghilgamesh gli ordina di osservare i “tabù” che regolano il mondo sotterraneo; ma per dimenticanza o leggerezza, Enkidu invece non li osserva, e resta pertanto preso e trattenuto dai demòni. Difficile è liberarlo. Soltanto quando, in seguito alla preghiera di Ghilgamesh, il dio Enki di Eridu ordina al dio Utu di aprire uno spiraglio dagli Inferi sino alla superficie, a Enkidu è possibile tornare, sotto forma di spirito, sulla terra per informare il sovrano sulla sorte degli uomini nell’aldilà. Aggiungendo domande su domande, Ghilgamesh vuole allora sapere, minutamente, in quale condizione si trovino i trapassali, come continuino a trascorrere la loro sopravvivenza, una volta che, in seguito alla morte, vi abbiano fatto il loro ingresso. Ma le risposte di Enkidu non sono che sconsolanti. Ovunque è oscurità e sporcizia, e tutti, anche se con qualche piccola differenza, giacciono in uno stato di squallore e tristezza:-“Il mio corpo, che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva, il mio corpo è mangiato dai vermi, come un vecchio vestito. Il mio corpo che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva, è come una crepa del terreno, piena di polvere”. E più o meno la sorte è uguale per tutti, anche se la peggiore sventura sovrasta coloro che sono morti senza figli o con un solo figlio, Coloro che sono restati insepolti, e coloro che non hanno qualcuno sulla terra che si occupi di essi. I primi di costoro piangono amaramente, accovacciati lungo il muro di cinta (tav.XII, 98-99), e gli altri, quanti non hanno più chi si curi di loro, devono accontentarsi di mangiare gli avanzi delle marmitte e i resti caduti per terra (tav.XII, 154-155), Sotto questa livida luce di pianto e di sconforto termina, dunque nella forma definitiva, il poema che, tutto sommato, può essere ben chiamalo il poema dell’umana esistenza in ognuna delle sue forme più rappresentative. I due amici, Ghilgamesh ed Enkidu, hanno gustato l’ebbrezza delle grandi imprese, si sono acquistati gloria e fama; si sono misurati con la realizzazione delle più audaci imprese; particolarmente Ghilgamesh, sfidando le difficoltà più tremende, è pure giunto di là dai confini della terra. Ma, per entrambi, la realtà ultima dell’esistenza è una soltanto: l’assoluta incapacità di evadere dal triste destino della morte, e perciò dalla morsa della sofferenza e del dolore, essendo da prendere per scontata la sinonimia tra mortalità e infelicità, sinonimia parallela e contraria a quella tra felicità e immortalità. Gli dèi sono felici perché sono immortali; per cui, sino a tanto che l’uomo non è immortale non può essere che infelice. Ciò che all’uomo é concesso è di godere, secondo il suggerimento che la dea Siduri dava a Ghilgamesh, delle poche e fugaci gioie che offre la vita. Ma al di fuori di queste il suo destino esistenziale è quello di essere infelice; desiderare e non ottenere, illudersi per poi rattristarsi, amare la vita e vedersela sfuggire. Nient’altro che un’illusione è, pertanto, sperare in un qualche cambiamento. Neppure gli dèi, come abbiamo visto nella Discesa di lnanna agli Inferi, possono nulla per cambiare in meglio la triste situazione. Neppure il “padre” Anu può nulla. La loro potenza è, sotto questo specifico aspetto, più che limitata. La loro stessa buona volontà si ritrova incapace di imporsi alla crudele realtà dei fatti, come sembra abbiano voluto puntualizzare, sullo sfondo del grande poema, gli autori di altri due poemetti mitici, “Etana” e “Adapa”, così chiamati anch’essi dal nome del loro rispettivo protagonista2′. Che, però, strettamente parlando, in nessuno dei due poemetti, è un eroe nel senso più comune del termine, di una persona cioè che, sia in guerra che in pace, si cimenta coraggiosamente in una serie di ardue e avventurose imprese e ne esce in continuazione vincitore. Non è questa, infatti, la veste in cui compaiono i protagonisti dei due poemetti Nessuno dei due rassomiglia, in questo senso, né a Ghilgamesh né a Enkidu, anche se ognuno dei due fu al centro di una particolare e singolare avventura. Più che andarne in cerca, l’avventura gli capitò piuttosto addosso.
La loro impostazione è soprattutto mitica, poiché l’uno e l’altro dei due protagonisti, per quanto uomini, vantano una specie di parentela con gli dèi, ed è in conformità a questa parentela che sembra essersi determinata la loro particolare avventura. In altre parole, l’uno e l’altro dei due poemetti, sembrano essere stati concepiti da sacerdoti-teologi unicamente per dimostrare che non è colpa o cattiva volontà degli dèi se il mondo è quello che è, se gli uomini muoiono e soffrono. Siamo perciò di fronte a una specie di “teodicea”, protesa a salvare l’ossequio e la venerazione verso le divinità. Per quanto riguarda il poemetto “Etana”, i vari e larghi frammenti che sono restati, appartengono a tre diverse recensioni che, in vista della successione dei fatti, possono essere ordinate in maniera diversa. Tuttavia, nonostante la possibilità di una diversa sistemazione dei frammenti, il senso fondamentale del racconto è sicuro. Nella disposizione più comune, il mito si apre con un’evocazione degli inizi della vita urbana, e del tempo in cui tra gli uomini non esisteva ancora la regalità, ma questa risedeva ancora unicamente presso gli dèi Una lacuna del testo permette, a questo punto, di rendersi conto del nesso tra la precedente evocazione della prima vita urbana e la scena che segue, una scena tratta dal mondo degli animali. Un serpente e un’aquila si sono giurati amicizia, e tra di loto s’intendono bene sino al giorno in cui l’aquila divora i piccoli del serpente. Questi, disperato, chiede aiuto agli dèi, e l’aquila è condannata a morire di fame e di sete nel fondo di un fosso. Il dio Shamash si commuove ai suoi pianti e conduce presso la fossa il re Etana: il re che, nelle liste reali, è ricordato come quarto re della prima dinastia di Kish e come chi sali al cielo.27 Tale designazione è in relazione all’amicizia che, in seguito all’incontro si stabilì tra il re Etana e l’aquila. Come condizione per trarla fuori dal fosso, Etana aveva, infatti, chiesto all’aquila di essere aiutato a salire al cielo per trovarvi l’erba adatta a guarire sua moglie dall’infecondità, e avere un erede per il trono. Accordo fatto. Etana monta dunque in groppa all’aquila, e entrambi salgono sempre più in alto verso il cielo, e tanto in alto che i monti, i lumi, le case, le città appaiono alla loro vista sempre più piccoli. A un certo momento, però, dopo diverse ore di volo, all’aquila vengono meno le forze, le ali si fanno pesanti e immobili, e i due cominciano a precipitare. Come sia finita la vicenda, se i due siano precipitati a terra ovvero se, dopo il cedimento, l’aquila sia riuscita a riprendere le forze e il volo, non si sa. Il testo termina, allo stato attuale, nel punto in cui all’aquila vengono a mancare le forze. Dal fatto che, secondo la lista dei re, Etana ebbe per successore al trono un proprio figlio, qualcuno (G. Castellino), ha supposto che lo scopo del viaggio fu raggiunto, che cioè l’aquila, con l’aiuto di Shamash, si sia ripresa e ambedue siano riusciti a raggiungere il cielo così che Etana si sia potuto provvedere dell’erba desiderata. Se la vera conclusione del racconto fosse questa, ben poco il poemetto di Etana avrebbe a che fare con il problema dell’immortalità e della tragica situazione esistenziale dell’uomo. Il problema trattato non sarebbe altro se non quello della regalità: che cioè la regalità è un’istituzione di origine divina (secondo il prologo) e che la forma dinastica (se gli dèi hanno esaudito il desiderio del re), ne costituisce l’autentico modello. Ma il significato del racconto potrebbe essere anche un altro: quello di mostrare, mediante l’irreparabile caduta dei due nel momento stesso in cui stavano per raggiungere la meta, che nessuna industria umana e nessun mezzo è sufficiente a mettere l’uomo in condizione di superare la distanza che separa la terra dal cielo, l’umanità dalla divinità28. Neppure il più forte dei volatili, l’aquila, è in grado di offrire l’aiuto necessario. Il mondo degli dèi è una meta assolutamente irraggiungibile per l’uomo. Meglio gli conviene rassegnarsi e togliersi dalla mente l’idea di tentare di forzare impunemente gli inviolabili confini. In ogni modo, nessuna perplessità c’è per il senso del mito di “Adapa”, chiaramente connesso con il problema dell’immortalità: il racconto è tutto proteso a mostrare l’impossibilità per l’uomo di uscire dal cerchio del suo infelice stato di mortalità. Il poemetto c’è giunto in quattro frammenti di disuguale importanza. Il più esteso, contenente la parte centrale del racconto, fu ritrovato in Egitto fra i documenti di Tell Amarna e fu, per primo, pubblicato da A. Schroeder nel 1915. Gli altri frammenti, contenenti l’inizio e la fine del poema, sono venuti invece alla luce in successivi ritrovamenti, tra il 1894 e il 1930, tra i resti della Biblioteca di Assurbanipal (669-629 a.C. ). Il mito racconta, dunque, che ad Adapa, figlio di Ea (il sumerico Enki. dio della sapienza con sede a Eridu) e suo sacerdote che aveva l’incarico di provvedere ai rifornimento di pesci per l’offerta giornaliera, un giorno, mentre si trovava in barca per la pesca, un improvviso e violento colpo del vento del Sud, rovescio l’imbarcazione. Con reazione istintiva Adapa imprecò contro il vento, e ottenne che, spezzato delle ali, cessasse di soffiare. Quando, dopo sette giorni che il vento aveva smesso di alitare, Anu volle accertarsi del perché il vento non spirasse più, venne a sapere dal suo messaggero Illabrat che causa ne era stato Adapa. Ordinò perciò che il colpevole fosse portato alla sua presenza L’ordine venne a conoscenza del dio Ea, il dio della sapienza e protettore di Adapa. Volendo premunire il suo protetto contro ogni cattiva sorpresa, Ea s’affrettò a dargli alcuni consigli e ammonimenti: dovendosi portare alla presenza di Anu, si sarebbe dovuto vestire a lutto e lasciare i capelli incolti, e quando fosse giunto nell’anticamera e i due dèi, Tammuz e Gishzida, addetti al servizio, l’avessero interrogato sul perché vestisse a lutto, avrebbe dovuto rispondere (dando l’impressione di non conoscerli) che faceva ciò per lamentare la scomparsa degli stessi due dèi dalla terra. Particolarmente accorto, egli doveva essere quando i due dèi l’avessero introdotto alla presenza di Anu. Il padre degli dèi gli avrebbe offerto, per ristorarsi cibo e bevanda. Non avrebbe dovuto accettarli, perché non gli sarebbero stati che cibo di morte. Adapa si comportò secondo le istruzioni impartitegli. Giunto nell’anticamera incontrò i due dèi e rispose, secondo gli ordini ricevuti, alla loro domanda.
Questi entrarono da Anu per annunziargli l’arrivo del colpevole. Poi fu introdotto anche Adapa. Interrogato si difese. Anu lo assolse, e ordinò anzi che gli fossero portati cibo e bevanda; lo invitò a deporre le vesti di lutto e indossare gli abiti della gioia. Fedele però ai consigli di Ea, Adapa rifiutò, con grande sorpresa di Anu. Ma fu uno sbaglio grande e irrimediabile, perché Anu, irritato dal rifiuto, ordinò immediatamente che Adapa fosse ricondotto sulla terra, tra i mortali. Diversamente infatti da quanto il dio Ea aveva fatto intendere, il dio Anu non si mostrò affatto irremovibile, aspro e cattivo nei confronti di Adapa. Un po’ l’intercessione dei due dèi (Tammuz e Gishzida), lusingati dal suo pianto, e un po’ la stessa amabile difesa di Adapa, non solo avevano ben disposto Anu ad assolverlo dalla colpa e dalla morte, ma lo avevano deciso a fargli dono dell’immortalità. La bevanda e il cibo, che gli aveva fatto offrire, tutt’altro che bevanda e cibo di morte (come aveva fatto intendere il dio Ea), erano davvero cibo e bevanda di divina immortalità. Gli studiosi si sono posti la domanda, insieme ad altre questioni circa il ruolo rappresentativo di Adapa nei confronti del l’immortalità, su quali furono esattamente le intenzioni del dio Ea nel dare ad Adapa dei consigli che risultarono, poi, estremamente funesti per lui. 29 Per quanto concerne il ruolo rappresentativo di Adapa, egli apparirebbe nel racconto mesopotamico, a giudizio di alcuni, il capostipite della umanità, in maniera analoga, stando ai racconti biblici della Genesi, ad Adamo (Gn cc. 2- 3). Per la analogia rappresentativa dei due personaggi sembra stare il fatto che tanto il termine a-da-pa, attestalo in un sillabario accadico, che il biblico ‘dam, hanno il generico significato di “uomo”, umanità Tuttavia l’analogia non è tale da far considerare l’Adapa mesopotamico come il prototipo dell’Adamo biblico. Del tutto diverso è, infatti, il motivo per cui l’uno e l’altro, nei loro rispettivi racconti, persero, la possibilità di essere immortali. Adapa si trovò a mani vuote per aver obbedito al dio della conoscenza (Ea), mentre Adamo fu cacciato dal paradiso per aver direttamente trasgredito l’ordine del Dio biblico. D’altra parte, a differenza del racconto biblico su Adamo, il mito di Adapa non è per nulla un mito delle origini Al tempo, infatti, in cui Adapa ha la sua avventura, l’umanità già esisteva, e già esisteva la regalità. Da ciò tuttavia non segue che alla figura di Adapa manchi, nelle intenzioni del mito, un ruolo rappresentativo della situazione umana. Un mito può ben essere rappresentativo di una condizione esistenziale dell’umanità senza essere, necessariamente, un mito delle origini. Il poema di Ghilgamesh non è un mito delle origini, eppure è sicuramente rappresentativo dell’umanità e dei nodi cruciali della condizione umana D’altra parte, è proprio con questo poema, con il problema del l’immortalità trattato nella sua ultima parte (tav. XI), che il racconto di Adapa mostra notevolissime affinità dottrinali. Allo stesso modo, infatti, che gli dèi, di comune accordo, concessero a Utnapishtim l’immortalità per essere riuscito (grazie al suggerimento del dio Ea) a sfuggire il disastro del diluvio, così pure Anu, sia per l’intercessione dei due dèi addetti alla sua anticamera e sia per i meriti acquisiti da Adapa, è disposto a concedere anche a lui il dono dell’immortalità. In ambedue i racconti sembra agire il principio secondo il quale un primo privilegio ne chiama un secondo. La somiglianza tra la figura di Utnapishtim e quella di Adapa cessa soltanto nel momento dell’accettazione dell’offerta fatta alla divinità. Utnapishtim divenne immortale perché impiegò la dovuta accortezza per cogliere l’offerta nel giusto modo, mentre Adapa, per suggerimento di Ea, sbagliò. In ciò Adapa fu piuttosto simile a Ghilgamesh. il quale, nonostante la buona disposizione degli dèi, i quali, tramite Utnapishtim, gli indicarono l’erba della vita, non riuscì a diventare immortale. Per la sua imprevidenza non seppe avvalersi del dono fattogli. E tale fu appunto, in qualche modo, Adapa. Rigorosamente parlando egli non fu né un disattento né un imprevidente. Sbagliò soltanto perché accettò i consigli del suo dio protettore, Ea. Come fu possibile lo sbaglio? Il dio Ea, nel dare ad Adapa i consigli che dette, fu sincero e agì con la sola intenzione di salvarlo, ovvero, sotto le spoglie del dio protettore e mediante falsi consigli, mirò a impedirgli di ottenere il dono dell’immortalità? Ammessa la possibilità di questa seconda ipotesi, è facile notare quanto l’agire di Ea, il dio della sapienza, rassomigli a quello che svolge, nel racconto della Genesi, la figura del Serpente nei confronti di Adamo (Gn 3, l-7). Alcuni, a conferma dell’ipotesi, hanno invocato la figura, ben nota agli etnologi, della divinità trickster, il “dio – briccone” che mira a sovvertire, con l’inganno e la frode, i piani fissati dagli altri dèi tanto per il gusto della comicità, dello “spettacolo”, quanto per creare situazioni utili all’umanità. In fondo, è in questa parte di sovvertitore del piano degli dèi, i quali intendono distruggere tutta l’umanità, che, secondo il racconto del diluvio, Ea rivela a Utnapishtim il modo di salvarsi dalla distruzione totale, e con lui salvare l’umanità. Nondimeno, nel mito di Adapa, la sincerità della divinità sembra fuori discussione.
Il consiglio di non toccare il cibo che Anu gli dà, non appare diverso, per il tono di sincerità, di quello del vestirsi a lutto per avere le grazie dei due dèi custodi dell’anticamera di Anu. Meglio quindi concludere che, secondo il racconto, anche il dio Ea, a proposito dell’immortalità, si sbagliò pienamente, ritenendo che Anu mai avrebbe potuto offrire agli uomini un tale dono. Ma su questo tema dell’immortalità, sembra che il racconto voglia far emergere che anche Anu s’ingannò, non avendo previsto che la sua offerta si sarebbe scontrata con il rifiuto di Adapa. Il che significa che gli avvenimenti si svolsero secondo la suprema legge della fatalità, una legge cioè superiore sia all’intelligenza di Ea che alla bontà di Anu. La colpa per cui l’uomo è mortale non è né degli dèi né dello stesso uomo: la colpa è di nessuno. La mortalità è solo un aspetto della fatalità che al di sopra della volontà degli dèi, domina e pervade il mondo e le cose, così come, con maggiore rilevanza dottrinale e letteraria, avrebbero scritto i Greci. Espresso soprattutto con il termine heimarmene, e usato come aggettivo sostantivo di moira, quindi “parte assegnata” (“destino”), il “fato” divenne tra i Greci, sin dal tempo della letteratura omerica, una delle idee fondamentali per l’interpretazione dell’essere e dell’agire di ogni cosa32. Derivato forse dalla costante ordinata inesorabile ripetitività dei vari fenomeni cosmici, il fato fu sentito apertamente come l’unità cosmica inscindibile e coinvolgente anche gli dèi e contro la quale nulla poteva il loro volere. A Sarpedonte, che è sul punto di morire. Zeus vorrebbe allungare la vita, ma desiste dall’impresa appena Hera gli ricorda che gli è impossibile violare le leggi dell’universo (Iliade XVI, 433-461; cfr. XIX. 186; XXI,82; Odissea III. 226, XI, 558). Le tre note Moirai, (Klotho, Lachesis, Atropos), cosi designate primariamente da Esiodo (Teogonia 905), non sorsero se non come espressione di tale concetto35. Una qualche frase, come quella in cui si parla della “moira degli dèi” (Odissea III, 269), potrebbe far pensare che le Moirai volessero essere soprattutto le personificazioni delle supreme e libere decisioni divine. In realtà, anche se figlie di Zeus, esse furono l’espressione, come risulta dalla letteratura successiva, dei diversi aspetti di quel destino cosmico e universale, cui soggiaceva, per quanto riguarda i punti nevralgici dell’esistenza, l’esercizio del potere divino Cosi, soprattutto alla luce di quella “parte assegnata” vennero generalmente trattate dalla riflessione filosofica e dalla tradizione poetica e tragica, le tristi e sconvolgenti vicende della grande e piccola storia umana. 34 All’idea del “fato” gli Assiro-babilonesi, e, prima di loro, i Sumeri, non concessero lo stesso spessore ideologico dei Greci. Né i loro poemi né la loro varia produzione sapienziale fecero aperta e chiara professione dell’esistenza di una forza, superiore alla volontà degli dèi. Ma dalla mancanza di una tale aperta professione non si può minimamente concludere che l’idea del fato non fu presente e operante nella loro interpretazione del mondo e delle cose. Presente e operante essa fu, prima di tutto, già nella riconosciuta impossibilità per gli dèi d’intervenire nel mondo cosmico e nel mondo della storia, per arrestarne il ripetersi e dirigere gli eventi verso un determinato scopo35. Gli dèi non sono onnipotenti. Ma è proprio da questa concezione della limitata potenza degli dèi che deriva necessariamente, anche se non apertamente professata, la fede nell’esistenza di forze per le quali il mondo esiste come esiste, e alle quali anche gli dèi devono soggiacere. In altre parole, anche per i Mesopotamici, molto prima che per i Greci, l’idea del fato intervenne come spiegazione ultima di ciò che è il mondo e di ciò che esso contiene di triste, amaro, doloroso per l’uomo, e quindi anche di quella imprevidenza, per cui Gilgamesh si lasciò rapire l’erba della vita, e di quello sbaglio, per cui Adapa non mangiò il cibo offertogli da Anu. E fu sin da allora che l’ineluttabile presenza del fato impregnò di amaro pessimismo le opere più rappresentative del pensiero sapienziale. Allo stato attuale delle nostre conoscenze sono soprattutto tre, e discretamente ben conservati, gli scritti che i Mesopotamici, con un genere letterario differente da quello eroico-mitico, dedicarono alla valutazione complessiva dell’esistenza umana, se fosse cioè da viverla serenamente con gioia nella speranza di un mondo migliore ovvero, per non illudersi, fosse da vivere piuttosto nella convinzione disperata dell’impossibilità di un qualsiasi miglioramento. Tutti e tre gli scritti sono da riportare, per la loro origine, alle scuole sapienziali’6, anche se, nell’ambito dell’attività sapienziale, esse restano prive di una particolare denominazione. J. B. Pritchard, nella sua nota silloge di testi antico-orientali (The Ancient Near East Texts, Princeton 1955), li ha raccolti sotto il titolo di Osservazioni sopra la vita e l’ordine del mondo. Sotto lo stesso titolo potrebbero pure andare i due particolari racconti egiziani, che nell’opera del Pritchard sono presentati sotto il titolo generico di Racconti didattici, e dei quali parleremo più avanti. Oltre che in queste cinque operette morali, tre mesopotamiche e due egiziane, valutazioni circa il valore della vita e la sua maggiore o minore godibilità affiorano anche in altri componimenti della letteratura mesopotamica (le “lamentazioni”37, i “proverbi”38 e le “favole”39) e nelle “istruzioni” della letteratura egiziana40. Nell’una o nell’altra di queste composizioni si evidenziano detti e sentenze tese a rilevare, con valore sapienziale, il senso di attribuire alla vita e alle sue profonde aspirazioni e a indicare il modo di far fronte allo scoramento che tormenta l’esistenza di ogni uomo. Per il nostro intento, conviene limitarci alle cinque operette morali che sono le più rappresentative, e che hanno in comune la soluzione di rilevare e affermare l’assoluta incapacità umana a rimuovere dal mondo le condizioni che rendono triste e penosa la vita, e costringono l’uomo a vivere in desolata rassegnazione, sempre, anche quando non sia afflitto da particolari sofferenze fisiche, come le malattie, o anche indipendentemente dal male supremo: la morte. La prima delle composizioni mesopotamiche, composta durante la prima dinastia babilonese, fu conosciuta e diffusa attraverso le sue parole iniziali, Ludlul-bel-nemeqi, “Loderò il Signore della sapienza”41 e che, in ragione delle somiglianze del racconto biblico su Giobbe e in mancanza di un vero e proprio titolo, è anche conosciuta come il “Giobbe babilonese”. Il testo, distribuito in quattro tavole, di cui solo la seconda è completa, contiene i lamenti che un certo Subshi-meshre-Sakkan, governatore di una città, rivolge a Marduk, dopo averne celebrate le lodi con un inno, per essere liberato dalla sua malattia42. L’ammalato comincia a ricordare le tristi vicende che, preannunziategli da alcuni cattivi presagi, gli sono capitate addosso a causa della perdita della protezione divina (tav. I). Egli si è trovato allontanato dalla casa e dalla famiglia, messo in disparte, e maligne dicerie sono state fatte correre sul suo conto da parte dei suoi amici e conoscenti Parlandone male, i parenti e gli amici lo considerano riprovato dagli dèi, e insidiano il suo impiego e la sua professione, sì che non gli resta che piangere giorno e notte. E’ a questo punto che, rivolto agli dèi, si apre un lungo lamento, che vuol essere anche un rimprovero verso il loro modo di agire (tav. II). Essi non hanno in realtà tenuto minimamente conto della sua religiosità e della cura da lui messa nell’osservanza delle pratiche di pietà. L’hanno trattato come uno che non abbia compiuto le dovute libagioni al suo dio, abbia trascurato i giorni festivi, le preghiere e le altre devozioni. Nasce il dubbio che gli dèi si comportino in modo bizzarro e capriccioso Una povera creatura umana, cosi, non sa mai come comportarsi con loro, ignora quello che è di loro gradimento. Il male continua, però, a tormentarlo: un male che né gli indovini né gli incantatori né i maghi sanno diagnosticare e curare. In tal modo anche i parenti, convinti che la morte sia vicina, gli preparano già la fossa e si spartiscono l’eredità. Forse però c’è ancora da sperare. Difatti la guarigione arriva (tav. III). Per due volte gli appare in sogno un giovane che su di lui compie dei riti di purificazione43, e poi anche una regina, e insieme gli recano da parte di Marduk il messaggio della salvezza. Con l’intervento, difatti, del ministro incantatore, i suoi mali scompaiono e, una volta guarito (tav. IV), Shubshi assolve i vari obblighi della riconoscenza: riconosce e proclama che è stato il dio Marduk che lo ha guarito e, pertanto, in suo onore e in quello della sua paredra Sarpanit allestisce il banchetto di ringraziamento.44 Infine, egli ricorda come abbia pure perfezionato il ringraziamento organizzando dei riti nel tempio dell’ Esagila, di modo che fosse manifesta a tutti la grazia da lui ricevuta e la sua riconoscenza al dio che lo aveva guarito. Il poemetto, pur non esprimendo una visione assolutamente pessimistica della vita, poiché al tormento della vita fa succedere la gioia della guarigione, può fare da sfondo alle altre due operette mesopotamiche consentendo di evidenziarne, quasi a contrasto, i toni pessimistici. La prima è comunemente chiamata “Teodicea Babilonese”, uno scritto dialogico e acrostico, composto da ventisette strofe di undici versi ciascuna45. Un’opera, dunque, di particolare elaborazione che, a quanto sembra, vide la luce nei primi secoli del I millennio. Consegnato nei segni della scrittura cuneiforme che formano l’acrostico, è il nome dell’autore e la sua funzione nel tempio: “Io, Saggil-kina ubbib, sacerdote dello scongiuro, sono adoratore del dio e del re”. Per quanto riguarda la forma dialogica, le ventisette strofe si succedono come dette, alternativamente, tra un “paziente” e un suo “amico”, i quali si avvicendano per concludere, alla fine, che non è colpa degli dèi se nel mondo esistono ingiustizie e soprusi, se i buoni spesso ricevono il male e ai malvagi va tutto bene. Da qui il titolo datogli di “Teodicea”46. Colpito da varie sventure, il “paziente” si lamenta della sua triste situazione, mentre l'”amico”, volta per volta, si sforza di moderarne gli attacchi. Orfano sin da bambino (I strofa), il paziente afferma di essere cresciuto in mezzo alle sventure; al che l’amico risponde facendo notare che la morte è retaggio comune, e che, volendo, si possa sempre ottenere la protezione di un dio. Il paziente ripete che non gli riesce di avere un giorno felice, e l’amico ribatte invitandolo a non esagerare e a voler superare la prova. Il paziente replica che nel mondo sono sempre i più forti che, noncuranti dei doveri religiosi, prosperano e arricchiscono, mentre gli dèi appaiono del tutto indifferenti alla lotta che si svolge tra il bene e il male. L’amico replica che, come il leone, anche i ricchi fanno spesso una cattiva fine, Il paziente afferma che a nulla vale l’essere devoto agli dèi, come la sua stessa esperienza insegna, al che l’amico risponde che affermazioni simili sono delle autentiche bestemmie. A questo punto, mancano nel testo tre strofe (IX-Xl) e poche sono le parole superstiti nella dodicesima. Dopo la lacuna, il paziente dichiara (XIII) che, stando cosi le cose, conviene darsi a una vita piuttosto dissoluta e vagabonda e non far alcun conto delle leggi. Ma un’altra lacuna, più grande, impedisce di nuovo di conoscere non solo la risposta dell’amico alla precedente affermazione del paziente, ma anche buona parte del dibattito. Le otto strofe seguenti (dalla XIV alla XXI) sono ancora troppo incomplete per poterne decifrare il contenuto. Il senso ritorna percettibile là dove l’amico (XXII) afferma che la vendetta divina non tarderà a punire il malvagio e la virtù invece sarà ricompensata.
Il paziente torna a ripetere che tale e tanto è il male nel mondo che si deve giustamente concludere che gli dèi non fanno nulla per impedirlo: un’affermazione alla quale l’amico risponde facendo notare che il destino dell’uomo è un mistero, di cui gli dèi non sono responsabili. Ma l’afflitto torna ancora a ripetere che i soli ad avere successo, nel mondo, sono i perversi. E qui, quasi accettando il punto di vista del paziente, l’amico conviene nel ritenere che, per il destino che lo domina, l’uomo è corrotto nella sua natura, mentre poi, nell’ultima strofa, in forma di conclusione, il paziente finisce per implorare, sebbene non convinto dalle ragioni contrarie alle sue, la pietà sia dell’amico che degli dèi, onde potere, attraverso l’aiuto di costoro, soprattutto del dio Shamash, riacquistare la sanità e con questa il prestigio e il rispetto dei suoi concittadini. Al pari di quelli contenuti nel Ludlul bel Nemeqì,i rapporti letterari tra la sapienza mesopotamica e quella biblica non mancano neppure per questo Dialogo babilonese sulla giustizia degli dèi47 Come più vicino al Dialogo, E. Ebeling ritenne il Qohelet biblico48. Tuttavia, a quanto sembra, meglio del Qohelet è lo stesso libro di Giobbe che entra, anche qui, in discussione49. Le contrastanti posizioni dialettiche, sostenute nel Dialogo mesopotamico rispettivamente dal paziente e dall’amico, rassomigliano a quelle sostenute nel libro di Giobbe, rispettivamente, da Giobbe e dai suoi tre amici, e allo stesso modo che nel Dialogo mesopotamico chi contesta le opinioni tradizionali è il paziente, così pure, nel libro biblico, il contestatore è Giobbe. Ma fra le due composizioni vi è una indubbia distanza dottrinale. Giobbe contesta per concludere che il male soggiace in tutto e per tutto alla onnipotente bontà di Yahweh, mentre l’afflitto mesopotamico finisce per ribadire le accuse contro l’incapacità degli dèi a cambiare il mondo, e proclamare che il mondo si muove dentro le ferree leggi di una permanente azione del male. E’ indubbiamente la terza delle opere mesopotamiche che abbiamo preso in considerazione, quella più decisamente acre e pungente c intrisa di un radicale pessimismo. Nelle edizioni è generalmente nota con il titolo di Dialogo fra padrone e servo, ma ricorre pure con il titolo di Dialogo sul pessimismo o Dialogo pessimistico (50). Diverse tra di loro, per l’ordine delle strofe, sono le due redazioni del dialogo, l’assira e la babilonese, ma nessuna delle due è completa; e per quanto riguarda l’età di composizione due elementi sembrano suggerire un tempo piuttosto tardivo. La menzione difatti del “pugnale di ferro” esclude l’antico periodo babilonese (I dinastia) e la prima metà del periodo cassita (c. 1517-1280). Portato avanti con un singolare tono umoristico, il dialogo si svolge in un succedersi incalzante di botta e risposta, secondo uno schema che fissa gli elementi sia per la proposta del padrone che per la risposta del servo. Anche per questo motivo (cioè la struttura schematica), il dialogo, così come quello in precedenza esaminato, appare come frutto di un tempo di fine ricerca letteraria. Le battute, sono rapide e incisive e lo schema è il seguente: il padrone chiama il servo all’ascolto; il servo si dichiara pronto; il padrone gli manifesta una sua particolare intenzione; il servo l’ approva con piena disponibilità e ne espone i vantaggi; ma il padrone cambia subito idea e dichiara più opportuno fare tutto il contrario di ciò che aveva proposto; il servo approva con altrettanta disponibilità l’intenzione contraria, la loda anzi e anche di questa espone i vantaggi. Nella tavola trovata ad Assur, questo schema si ripete per dieci volte, tanti sono i progetti, che il padrone successivamente propone e disdice e tante le risposte con cui il servo conferma la proposta e la disdetta: fare una visita a corte, accettare un invito a pranzo e prepararsi, fare una gita in campagna mettere su famiglia e litigare con il vicino, fare il ribelle e il fuorilegge, amare una donna, offrire un sacrificio agli dèi; fare prestiti per aumentare il capitale, essere generoso e largo di doni, farla finita con la evita tanto da parte sua che dello schiavo. Vediamo uno di questi progetti, il terzo che riguarda una gita in campagna:
“Schiavo, fammi il favore! – eccomi. signore, eccomi – Di corsa, alzati e attacca la carrozza, attacca, voglio portarmi in campagna – Vai signore vai. Chi vaga all’aperto sazia il suo stomaco; il cane randagio (può) rompere il suo osso, il corvo che vola al largo (trova di che) intrecciare il suo nido. L’asino selvatico che fugge veloce si riempie a piacere nella steppa – No, schiavo, io non (voglio più) portarmi in campagna! – Non andarci, signore, non andarci l ‘uomo che girovaga, il cervello gli dà di volta, il cane randagio gli rompono i denti il corvo che vola al largo finisce per trovare la casa nelle crepe (?) del muro, e l’asino selvatico (dopo essere) fuggito si sdraia nella steppa”
Ed ecco l’ultimo brano, secondo il quale, in conclusione, padrone e servo valutano se il togliersi la vita non sia la migliore delle scelte:
“Schiavo, fammi il favore’ – Eccomi, signore, eccomi! – Che cos’e in fondo il bene? – Rompere il mio collo e il tuo ed essere buttato nel fiume (ecco, ciò che) è bene! – Chi e (abbastanza) lungo da salire al cielo’’ Chi è (abbastanza) largo da esaurire (nell’abbraccio) l’Ade? – No. schiavo ucciderò prima te e ti spedirò (all’Ade) – E (cosi) potrà il mio signore sopravvivermi per tre giorni?”
Padrone e servo paiono divertirsi a rilevare, attraverso i rispettivi ruoli, la capricciosità da parte del padrone e l’ossequiosa obbedienza dello schiavo, i modi diversi e contrastanti con cui possono essere prese le varie realtà della vita niente esiste che non si presti a una duplice e contraddittoria valutazione Ma niente esiste, appunto, che risulti di piena soddisfazione. I desideri dell’uomo sono maggiori di quanto offrano le due alternative. Si vorrebbe salire al cielo. Ma nessuno può sfuggire alla morte, come finisce per concludere lo schiavo, “né è abbastanza lungo da salire al cielo né così largo da non essere assorbito nell’Ade”, cioè da non morire. Oltre che umoristico, così, il tono è anche fortemente pessimistico. E questa è l’interpretazione che si è imposta e che ha dominato per vari decenni dopo la scoperta e pubblicazione del testo, ma, poi, dal 1948, l’interpretazione ha subito una svolta. La composizione è stata intesa come una parodia o una mimica eseguiti durante i saturnalia babilonesi, come una divertente critica dell’obbedienza servile. Recentemente, tanto da parte di G. Lambert quanto di G. Castellino si è tornati alla prima interpretazione, di un poemetto volutamente e tremendamente tragico. Per quanto rappresentative, le tre operette morali della sapienza mesopotamica, per sé, sono forse poche per assumerle come espressione piena e autentica del pensiero dei sapienti, di tutti i sapienti, in merito ai problemi, strettamente connessi tra di loro, della vita e della morte, del bene e del male, della sofferenza e della felicità, dello sconforto e della gioia. Non dovrebbe, per sé, escludersi l’ipotesi che potettero ben esistere, tra la produzione letteraria di tipo sapienziale, altre operette più aperte alla gioia e all’ottimismo esistenziali della vita. Ma, stando a quanto di sicuro conosciamo sulla visione mesopotamica dell’uomo e dei suoi destini ultimi, che ci appare chiusa a ogni fondata speranza di un mondo diverso, convinta che né gli dèi né gli uomini potessero distruggere la morte, è quasi impossibile immaginare l’esistenza di altre opere meno pessimistiche di queste che sarebbero potute nascere soltanto dalla fede in una illimitata potenza degli dèi o in quella di un Dio onnipotente e buono.
Note:
1) S. N. Kramer, Death and Nether World according to the Sumerian Literary Texts, in Iraq 22 (I960), pp. 59-68; R. Jestin, La personalité et l’au-delà chez les Sumériens, in Rev. Phil, de la France et de L’Etranger 86 (1961), pp. 1-10; Idem, La conception sumérienne de la vie post-mortem, in Syria 33 ( 185). pp. 113-18; E. Cassin, La mort. Valeur et représentation en Mésopotamie Ancienne, in Gh. Gnoli – J. P Vernant (cur ), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge-Pari s 1990. pp. 355-72 e, nella stessa opera, J. Bottero, Les Inscriptions cunéiformes funéraires, pp. 373- 406.
2) Cfr. Lamentazione per Lillu, vv. 45-8 e 58-9, trad, in G. R. Castellino, Testi Sumerici e Accadici, Torino 1977, pp. 326 e 327.
3) Per i significati di etemmu, GIDIM in sumerico, v. CAD, E, s.v., p. 397.
4) Trad, e commento in J. Bottero e S. N. Kramer, op. cit pp. 287-308.
5) G.Pettinato, La saga di Gilgamesh, Milano 1992
6) S. N. Kramer, Sumerian Miths and Epic Tales, in ANET, pp. 37-59; cfr G. R. Castellino, The Epic of Gilgamesh and its sumerian Sources, in JACS 64 (1994), pp. 7-23.
7) Cfr. J. J. Stamm, Das Gilgamesepos und seine Vorgeschichte, in Asian Studies 6 (1952), pp. 9-29; A. Falkenstein, Gilgamesh nach sumerischen Texte, in RLA III (1957-1971), pp. 356-363.
8) E. Ebeling, Tod und Leben nach Vorstellung der Babylonier, I, Berlin 1a 1931; F. R. Kraus, Altmesopotamisches Lebensgefuhl, in JNF.S 19 (1950), pp. 117- J 52; Love and Death in the Ancient Near East. Fs. M. H. Pope, Guilford 1987.
9) G. Dossin, Enkidu dans l’epopèe de Gilgamesh, in Academie R. de Belgique, Bulletin de la Classe de Lettres, V Serie, vol. 42, Bruxelles 1956.
10) G. Furlani, Sul concetto dell’eroe in Babilonia, in Atti del R. Istituto Veneto di Scienze 83/2 (1929), pp. 671-82.
11) Sull’idea di “autonomia” religiosa, cfr. G. Bertram, Hybris…, in GLNT XIV (1984), pp. 1-37.
12) G. Furlani, L’epopea di Gilgamesh come inno all’amicizia, in Belfàgor 1 (1946), pp. 577-89.
13) Nel suo significato etimologico il nome di Utnapishtim, “Ha trovato la vita”, è l’equivalente del re sumerico Ziusudra o Ziasuddu, l’ultimo dei dieci re ricordati da una delle liste dei re anteriori al diluvi, cfr. Th. Jacobsen, The tSumerian King List. Assyriological Sludies, voi. 12, Chicago 1939.
14) Cfr. J. De Fraine, De conceptii vitae aeternae in epopea Gilgamesh, in Verhum Domini. Commentari de re biblica 87 (1949), pp. 102-111.
15) F. M. Th, De Liagre Bohl, Die Fahrt nach dem Lehen Kraut, in Archiv Orieniàlni 18 (1950). ,
16) Ph. L. Mills, The journey of Ghilgamesh to the isles of the Blest, in JAOS 48 (1927), pp. 289-301
17) Sulle molte relazioni e dipendenze della letteratura e cultura greca dalle letterature e culture dell’Antico Oriente, si veda S. S. Weinberg (cur.), The Aegaean and the Near East, New York 1956.
18) A. Salonen, Die Wasserfahrzeuge in Babylonien nach sumerisch akkadischen Quellen, Helsinki 1939.
19) A. Heidel, The Gilgamesh Epic and the Old Testament Parallels, Chicago 1946.
20) V. R. Campbell – Thompson, Assyrian Herbal, London 1924.
21) Cfr. R. Labat et al., Les Religions du proche- orient, Paris 1970, p, 222.
22) W. von Soden, Akkadische Handwörterbuch, II, Wiesbaden 1972, p. 879 (pukku = Trommel) e p. 647 (mukku = Stampfer); diversamente The Assyrian Dictionary, X (M/2), Chicago 1977, 7 (pukku = hoop e mukku = driving stick).
23) Cfr. E. Dhorme, Le séjour des morts chez les Babyl, et les Hebreux, in RB 4 (1907), pp. 57-78:
24) C. Saporetti, Etana, Palermo 1990; R. Labat, op. cit., pp. 287-93
25) Cfr. R. Labat, Le caractére religieux de la royauté assyro-babylonienne, Paris 1929.
26) Cfr. J. Morgenstern, A Contribution to the Study of the Role of the Serpent in semitic mythology, in ZA 29 (1914-15), pp. 284-301.
27) Cfr. G. Meier, Etana, in LAs II (1978-1983), p. 481.
28) R. Labat, op. cit., pp. 287-93.
29) Cfr. G. Furlani, Il mito di Adapa, in RANL VII, 5 (1929), pp. 113-71.
30) Cfr. J. Coppens, La connaissance du Bien et du mal et le Péché du Paradis, Paris-Louvain 1948.
31) Cfr. U. Bianchi, Il Dualismo religioso, Roma 1958, pp. 74-6.
32) Cfr. id. Dios aisa, destino, uomini e divinità nell’epos, nelle teogonie e nel culto dei Greci, Roma 1953.
33) Cfr. S. Eitrem, Moira, in PW XV (1980), coll. 2249-2297.
34) Ctr A. J. Festugièrè, De L’essence de la tragedie grecque, Paris 1969.
35) G. Furlani, Sul concetto del destino nella religione babilonese-assira, in Aegyptus 9 (1928), pp. 205-39.
36) Cfr. W. G. Lambert, Babylonian Wisdom Literature, Oxford 1967, pp. 1-20.
37) Cfr. S. N. Kramer, Sumerian Lamentations, in ANET, pp. 455-63 e 611-19.
38) Cfr. R. H. Pfeiffer, Akkadian Proverbs and Councils, in ANET, pp. 425-26 e 593-95.
39) Cfr. W. G. Lambert, Babylonian…, cit., pp. 150-221.
40) E. Bresciani, Letteratura e Poesia dell’Antico Egitto, Torino 1979, pp. 28-47, 83-92, 143-156,491-506.
41) Trad. in G. Castellino, Sapienza babilonese, Torino 1962, pp. 37-49.
42) Cfr. G. Contenau, La médecine en Assyrie et en Babylonie, Paris 1938; id., La magie suméro-akkadienne, in DBS V (1957), coll. 706-721.
43) Cfr. C. H. W. Johns; Purification, in J. Hasting (cur.), EnREh, X, pp. 455-505.
44) Cfr. G. Van Der Leuw, Fenomenologia delle Religioni,Torino 1979, pp. 183-89
45) Trad. in G. Castellino, Sapienza…, cit., pp. 50-58.
46) B. Landsberg, Die babylonische Theodizee, in ZA 43 (1936), pp. 32-76.
47) Cfr. J. Lévèque, Job et son Dieu.I-II, Paris 1970.
48) Cfr. E. Ebeling, Ein Babylonische Kohelet, in BBK I/I, Berlin 1922.
49) Cfr. E. Dhorme, Ecclésiaste ou Job.in RB32 (1923), pp. 5-27.
50) Trad. in G. Castellino, Testi Sumerici e Accadici, Torino 1977, pp. 507-08.
51) Cfr. J. Bottero, Le “Dialogue pessimiste” et la transcendance,in Revue Theol. et de Philos.6 (1966), pp. 7-24
Marco Pucciarini
è docente di Storia delle Religioni nel biennio di specializzazione dell’Istituto Teologico di Assisi (ente aggregato alla Pontificia Università Lateranense di Roma) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Assisi (Pontificia Università Lateranense); ha insegnato Storia delle Religioni presso l’Università degli Studi di Perugia dove ha diretto varie tesi di laurea. Ha curato, in collaborazione con il Museo della Letteratura romena di Bucarest, la Mostra bio-bibliografica dedicata a Mircea Eliade (Assisi, 1997); ha diretto la ricerca sui nuovi movimenti religiosi: £ ’Arcobaleno del Sacro in Umbria (2003). È autore del volume La morte e il morire nel mondo antico. Idee sulla sopravvivenza e i destini dell’uomo nello Antico Oriente. Con un’Appendice sul Sacrificio (1997). I suoi interessi di ricerca vanno dalle religioni del1’Italia pre-romana (vedi, Riti, sacrifici e dèi nelle Tavole Iguvine (1997), alle religioni dell’India (v., Atman e non-atman nell’insegnamento del Buddha (2016), La Yogatattva Upanishad e l’Atmabodha di Shankara (2009), ai testi della mistica ebraica (v., Il Sefer Yetzirah. Note di Lettura (2007), alle problematiche delle nuove forme del sacro (v., New Age.‘ Ambigua metamorfosi del sacro o paradosso della profanità? (2000), all’esoterismo (v., Comprendere 1’esoterismo come tipologia storico-religiosa (2012), alla metodologia della ricerca storico-religiosa (v., Ripensare il «Politeismo» (2011). E membro della Società italiana di Storia delle Religioni e partecipa a varie iniziative per il Dialogo interreligioso. Suoi ulteriori contributi si possono vedere a
http://unipg.academia.edu/marcopucciarini.